L'enormità dell'universo è tale che è inevitabile essere inclini, quando lo si paragonasse a uno qualsiasi degli elementi che lo compongono, inclini dicevo, a ritenere questo elemento quasi privo di valore.
Chi non si sentirebbe assurdamente un sovrappiù inutile, confrontandosi con l'immensamente grande?
Eppure ogni infimo costituente dell'insieme universale è necessario alla sussistenza dalla totalità, e nel suo rapporto con l'Assoluto al quale deve il suo esserci, è importante quanto ogni altra realtà, costellazioni incluse.
Dobbiamo il nostro esserci alla possibilità universale, e se non fossimo necessari questa possibilità non ci sarebbe stata donata.
Persino ciò che riteniamo essere un male è necessario all'equilibrio generale, formato dalla somma dei disequilibri parziali che lo compongono.
Equilibrio che deve la propria stabilità al suo continuo rinnovamento interno, che ruota attorno alle leggi universali e fisse nei confronti del cambiamento incessante.
Siamo equilibristi, sul filo del tempo, che cercano di non precipitare nell'abisso dello spazio che vorremmo divorare.
Ogni volta che perdiamo l'equilibrio cadiamo su un altro filo, in un'altra realtà sconosciuta, e ricominciamo daccapo a sperare, a soffrire e gioire, sentendoci le nullità che non siamo.
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