sabato 6 settembre 2008

Io di fronte a me



Quella ripidissima scala, che conduceva alla stanza della musica pregata del Monkey Temple, mi stava spezzando le ginocchia e sui quadricipiti ci potevo friggere le uova.
— Fanculo a tutte le religioni del mondo!—
 riflettevo mentre salivo, incazzato con le facce demoniache di due statue leonine che mi osservavano dalla sua cima irraggiungibile, e che erano per me la prova della truffa salmodiata che faceva leva sull'atavica paura dell'ignoto. Ero un anarchico allora, con un'idea della libertà che non è mai cambiata, in tutti questi anni di tentativi di piantargli dentro le unghie. Solo che la Libertà Assoluta io la concepivo come fosse relativa e immediatamente applicabile alla mia vita.
Vivevo lì, un po' lontano da Swayambhu, in un loculo di fango senza mobili, con una stuoia in terra che spruzzavo ogni tanto di DDT cancerogeno, intuendo lo sguardo in aspettativa delle pulci, a miliardi e abituate al veleno, che speravano fossi io a morire per primo, così da potermi divorare senza fretta.
In Italia ero un disegnatore tecnico, al mio esordio, nel campo dei radar e degli apparecchi di telecomunicazione prodotti dalla Face Standard e ITT Americana, poi all'Alfa Romeo di Milano, dove disegnavo modifiche alle auto e codificavo nuovi disegni, trafficando con così tanti numeri che non mi licenziai neppure, fuggii e basta. La mia fu una vera fuga dai numeri, che allora detestavo, perché a me piace ancora disegnare. Io sono un disegnatore nato, e ora anche un apprendista studioso di matematica.
In Nepal, invece, mi guadagnavo da vivere spacciando hashish e marijuana ai turisti, da sotto ai miei lunghi capelli lisci che parevano ricci per i pidocchi che li filavano impazienti e voraci, e anche perché non avevo il coraggio di lavarmi, gettandomi nudo sotto al getto enorme che sboccava da un drago in pietra, in una vasca di cemento e pietre, enorme e gelida, piena di gente in fila sotto zero (era inverno), che rotolava in terra per la violenza del getto sotto al quale passavano correndo; un getto d'acqua che tentava di sciacquarti via anche la vita. Così sollevavo il ghiaccio sulla superficie di una botte che raccoglieva l'acqua piovana, a lato della cuccia dove dormivo, che era culla di larve ibernate di esserini indecifrabili e mi sciacquavo appena, col turbidume marcescente che ondeggiava sotto.
Avevo stretto amicizia con un francese di nome Patrick, più mingherlino di me e più sveglio, col quale conversavo in Inglese perché il Francese l'ho imparato dopo. Trafficavamo insieme e ci stravolgevamo con lo spirito di ragazzini che giocano. Lui era di Parigi, un po' più intellettualoide di me che tutti consideravano un violento che litigava con tutti, a causa di qualche rissa avuta coi Nepalesi, i quali non sono miti e accomodanti come gli Indiani. Io ero di Quarto Oggiaro e lì picchiarsi era normale se non si voleva essere messi brutalmente sotto. Ero pure un karateka allenato, per avere appreso questa arte in anni di lavoro sul tatami, da ragazzino, ma non ne rispettavo rigorosamente i principi di pace e serenità. Per questi fatti eravamo spesso in polemica e lui aveva la deprecabile convinzione che fosse suo dovere abbandonarmi, da solo, in mezzo alle risse. E quando si traffica, non coi numeri, i litigi ci sono. Qualche tempo più tardi queste mie attitudini mi condussero dritto al carcere di Kathmandu.
Comunque quel giorno eravamo tranquilli e seduti in un chai shop a vendere marijuana, quando un ragazzone Americano ci mostrò due strisce di fogli spessi, assorbenti e bianchi, ripiegati a fisarmonica, e ci disse che erano trip troppo forti per lui anche dividendone ognuno in quattro parti. Ce li vendette a un prezzo bassissimo che odorava di truffa, ma se davvero lo fosse stata l'avremmo ritrovato facilmente, perché era straordinariamente alto e con l'aria da borghese molto perbene, una rarità per chi non scalava le montagne. Lo pagammo e ingoiammo l'ultimo della fila, quello piegato d’avanzo e male. Il più grosso di tutti... 

Patrick era più esperto di me nei viaggi psichedelici, aveva fatto molti più trip del mio centinaio ed era psichicamente, all'apparenza, più avvezzo a non farsi trascinare dalle emozioni violente. Io invece avevo un candore che mortificava la stupidità, e tantissima voglia di vivere capendo il mondo, ma nessuna capacità o inclinazione personale poteva attutire l’onda brutale che ci stava investendo.
L'hashish (charas ricavato dallo sfregamento manuale delle infiorescenze della marijuana) a quel tempo era ancora di ottima qualità, in Nepal, ed era stato legale fino all'anno prima. Venduto in appositi baracchini per strada, faceva parte della cultura atavica di quei popoli, e nessuno si scandalizzava vedendo qualcuno in difficoltà, con manifestazioni fuori controllo che non entravano di precisione nel canone della moderazione. Per questo, quando dopo dieci minuti dall'assunzione io e Patrick crollammo con la testa sul tavolo, nessuno si preoccupò troppo. Quel “chai shop” (locale del tè) era un localino poco più grande di un capannone di paglia; era gestito da due fratelli Tibetani che ci conoscevano bene, coi quali discutevamo di tutto e che, per le mie idee di sinistra, già avevano tentato di strozzarmi una volta che dissi essere il Dalai Lama un fascista.
Io e Patrick capimmo, con apprensione, che le ragioni dell'Americano che ci aveva venduto l'LSD erano fin troppo giustificate, e che non ci aveva mentito affatto dicendoci che, anche se presi a un quartino per volta, erano esageratamente forti.

Dopo solo un quarto d'ora le prime vampate d’energia diventarono una vibrazione insostenibile, lo sguardo si fece appannato e si spense nel buio più nero: eravamo diventati ciechi. Disperatamente, uno di fronte all'altro, non potevamo parlarci né toccarci e neppure muovere le teste che si erano appiccicate con le guance al piano del tavolo. Io non potevo vederlo, ma sapevo che lui provava la stessa mia paura di non tornare più a vedere. Avrei voluto farmi coraggio e fargli forza, sapendo che era così anche per lui, ma non potevamo fare altro che lasciarci andare alla nostra incoscienza criminale e all'effetto dell'acido, che eccedeva in tutto, tranne che in comprensione delle nostre debolezze.
Con lo scivolare di un tempo che sembrava immobile, alla prima ondata di terrore si sostituirono sensazioni così estreme che anche la paura della cecità scomparve, e si dileguò in un nero profondamente lontano e solido, nel quale il pensiero osservava stupito una miriade di spirali colorate, stelle rotanti di quel cielo oscuro. 
Spirali che vorticavano e si attorcigliavano salendo, come stessero evaporando. Il mio pensare diventò una voce lontana e quasi non più mia, perché la mia individualità era scomparsa, esplosa nella paura. 
— Chi sono, cosa sono senza il mio io?—
 chiesi angosciato a quel buio, desiderando che dietro di lui qualcuno potesse rispondermi.
— Sto per morire?—
 gridai ancora
— È questo il morire?—
— Chi sei tu che parli col mio pensare?—
 mi chiesi, senza più riconoscermi
La mia preoccupazione non poteva coinvolgere l'idea di un Dio, non ero un bambino che credeva, io credevo solo a quello che mi si presentava davanti e ora, davanti, non avevo un Dio, ma qualche parte di me che non avevo mai conosciuto. 
E volevo conoscerla o, se proprio non fosse stato possibile, almeno capire come fare a parlarci senza dover pagare quel mostruoso prezzo che mi aveva incastrato nella disperazione.

Noi tutti siamo consapevoli della nostra individualità, e sappiamo che lei è unica, anche quando abbiamo un gemello o vediamo che parte di questa individualità pare essere ricalcata su quella di uno dei nostri genitori, o sul miscuglio di alcune caratteristiche di entrambi. Mai ci sfiora il dubbio che, nel nostro essere quella unicità, forse totalizzante, ci possa sfuggire un qualche suo lato, magari proprio il più importante. 
In quel tremendo e lungo attimo io quella parte l'avevo sopra di me, lontana ma evidente. La cosa che mi colpiva maggiormente era che sentivo di essere quella parte prima e più di ogni altra parte di me, e che quello era l'aspetto non responsabile delle mie azioni, ma capace di giudicarle. 
Ero troppo sconvolto per essere ancora spaventato, e stavo come sta un gabbiano con le ali rotte, che galleggia tra i flutti di una tempesta, sballottato tra scogli neri e taglienti.
Quelle spirali, che in quel buio roteavano di colori si acquietarono, lasciando quel vuoto nero per ricomporsi in immagini che si distorcevano davanti agli occhi i quali, a fatica, riassorbivano di nuovo la luce. Per prima cosa cercai Patrick e mi accorsi che lui cercava me.
Senza poter parlare né toccarci stavamo lì, come bambini appena nati e già quasi morti.
Si sedette al nostro tavolo un tipo con gli occhiali quadrati a fondo di bottiglia, antipatico e supponente, e ci disse di non farla tanto lunga che un acido non aveva mai ucciso nessuno, insistendo che ci alzassimo e andassimo a fare un giro per i terrazzamenti di riso asciutti, lì fuori, a riprenderci. Non so come potesse sapere che era un acido che c'impastava a quel tavolo e non, invece, morfina, ma certo non poteva immaginare in che situazione ci trovassimo. Al nostro silenzio ci scosse infastidito e, alla fine e finalmente, se ne andò insultandoci.
Riprendere un poco di padronanza motoria non fu facile e richiese forse un paio d'ore, ma è impossibile determinare con precisione il tempo trascorso in acido, quando l'unico riferimento sei tu, il tuo interno e, insieme a loro, tutto il resto che ondeggia gommoso.
Riusciti finalmente ad alzare il capo dal tavolo guardammo le immagini davanti a noi fluttuare in gelatinose volute opache, che si scomponevano e ricomponevano in bolle, riflettenti le stesse immagini rimpicciolite di quel locale che si deformava in loro, tante volte quante erano loro. I suoni persero la vibrazione, tenebrosa ma comprensibile, avuta per qualche momento, e cominciarono a comportarsi come le bolle, in una folle sintonia armonica. Immagini e suoni si fondevano in bulbi sonori incomprensibili, simili al rincorrersi dell'acqua che sgorga da una fontana. Si componeva, in quello scorrere, musica tonda, come echi di vibrazioni che mutavano in un chiacchiericcio chioccoso, occupando il posto di ogni altra sensazione.
La meraviglia era totale, moltiplicata dal replicarsi indefinito delle immagini che correvano, frammentandosi in fotogrammi, rapidi nel tracciare scie di cloni di sé, in sfere sonore che giravano, spiraleggiando nell'aria densa.
Si sedette vicino a noi un tipo alto e bello, con l'aria d’essere Austriaco, il viso incorniciato da capelli castani a lunghi boccoli fitti e aristocratici il quale, essendosi accorto del nostro essere in una visuale psichedelica, ci sorrise con simpatia comunicandoci che anche lui sapeva. Ci fece un discorso simile a, o forse proprio, una formula matematica che io non capii, ma che pensai dovesse rappresentare il mordersi la coda della ciclicità che non voleva concedere vie d'uscita a se stessa.
Il sole era già alto quando uscimmo dal locale, e la luce abbagliante parve metterci al centro dell'attenzione di un nugolo di bambini che conoscevamo per averli visti scorrazzare spesso lì intorno. Quei bimbi si resero subito conto della nostra particolare vulnerabilità. L'acido amplifica quello che si è già, e quando l'ego è rimpicciolito in quella proporzione due sono i destini che si appresta a subire, specchiando e amplificando quello che succede anche nell'essere della propria normalità: o si chiude nella difensiva sofferenza della solitudine, o si apre alla generosità suicida. Non ci sono vie di mezzo quando il tumulto dell'anima prende il sopravvento. Io mi persi nel secondo fato e iniziai a regalare prima gli spiccioli, e poi le rupie di carta a quei folletti gioiosi, immagine della mia allegria senza scampo. 
Patrick mi guardava sorridendo imbarazzato, lui non sapeva esattamente quanti soldi avessi, ma erano pochi, circa trecento rupie, l'equivalente di ventimila lire di allora, come duecento euro di oggi. Un lampo di preveggenza mi disse che stavo mettendomi nella situazione in cui si trovavano quei bambini, ma non riuscivo a smettere di essere generoso.
      Attratta da quella calca di bambini, si avvicinò Carlotta. 
Era una ragazza Italiana, delle parti di Torino, che avevo conosciuto a Kabul in una pleasure room (si legge fumeria), e mi aveva raccontato la sua tristissima vicenda che l'aveva spinta a fuggire in Oriente: suo marito era finito in galera per spaccio di stupefacenti e lei aveva, nel contempo, perso il suo bambino che le era morto in una di quelle apnee nel sonno che affliggono i neonati. Disperata e in balia di una grave patologia depressiva era partita a casaccio, e raccontava la sua storia a chiunque fosse disponibile a stare un poco con lei ad ascoltare.
Carlotta era una bionda naturale, con lunghi capelli disordinati in riccioli lunghi, stretti da perline conchiglie e ninnoli dei più svariati, che avevano trasformato la sua folta chioma in una giungla tintinnante, la cui gioia contrastava tristemente con stati d'animo che non erano attutiti nemmeno dai sogni.
A Kathmandu la conoscevano tutti perché, nel suo continuo peggiorare, era come impazzita e urlava isterica contro tutto e tutti. Non aveva più i documenti, che le avevano rubato insieme ai pochi soldi che aveva e stava lì, senza visto, a urlare disperazione.
In questo il Nepal è profondamente dissimile dall'Italia, qui la polizia ti porterebbe in qualche Centro d'accoglienza o casa famiglia dove, anche nel calore di persone affabili ti avrebbero comunque, e forse anche giustamente, non posso dire quanto, privato della libertà.
 In Nepal no, lì dove si finisce in galera per poco, anche per un permesso di soggiorno scaduto da due ore, nessuno le faceva nulla. I Nepalesi sanno che dalla pazzia esce un io diverso e indifeso, e la considerano un tocco di Dio che porta con sé una necessità d'aiuto quindi, quando stai male tutti ti aiutano, ti ospitano a casa coi loro bambini anche se urli, ti vestono, ti nutrono, fai la spesa gratis ai mercati, sbraiti davanti ai poliziotti e loro si girano come se la loro attenzione fosse richiamata altrove. Questo è come fosse un prolungamento della loro consapevolezza religiosa, questa è la comprensione della sofferenza altrui. Ho avuto molti esempi di queste storie bellissime d'accoglienza io che, con i Nepalesi, popolo orgoglioso e a volte irascibile col quale ho avuto più di molti problemi, non vado proprio d'accordo.
Stavo dicendo che, mentre i bambini mi circondavano di manine allungate desiderose di spiccioli, arrivò Carlotta. Quando si è in acido la pazzia degli altri non pare così lontana dalla propria, quindi le sorrisi e le chiesi se poteva tenermi i soldi, perché io non potevo più gestirli. Lei, che erano mesi che non ne toccava, acconsentì senza meravigliarsi, li intascò e se ne andò dove non sapeva nemmeno lei.
 Finalmente liberato da quel peso m'incamminai, con Patrick, verso dove non sapevamo nemmeno noi.

Benché la meraviglia o il terrore, nella dimensione psichedelica siano totali, e una nuvola possa sembrare una chiesa, un drago o il castello di Dracula, e un foruncolo il primo segno di un incipiente tumore o una macchiolina colorata e ridicolmente divertente, non è lo spettacolo esteriore coi suoi arabeschi che costituisce la meraviglia maggiore, o l’incubo peggiore, dell’esperienza allucinatoria.
È il suo effetto sulla coscienza che sconcerta, analogo al rincorrersi del circonvoluto arzigogolio dei pensieri. Effetto che ricalca le forme che riempiono la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto, e che si scambiano continuamente di posto tra loro. L’LSD amplifica e spezzetta, ingigantendoli, o fonde tra loro, rimpicciolendoli, i minuscoli e infimi componenti della realtà che in questa amplificazione, verso l’alto o verso il basso, dentro o fuori, surreali tanto quanto reali, mostrano, in queste interiezioni sì la stessa realtà, ma per vie diverse e in vesti inconsuete, attraverso la correlazione analogica che sussiste tra gli elementi del tutto e la loro somma che dà forma a quel tutto. 
Un tutto il quale è sempre maggiore e più vicino alla perfezione di quanto lo sia la somma dei suoi componenti imperfetti.
Derivando necessariamente ogni cosa dallo stesso Principio unico che la genera, irradiandola e dividendosi in questa cosa, ogni elemento del tutto deve essere simbolo del tutto, al grado che gli appartiene e l’acido, coi suoi effetti, non può ovviamente sfuggire a questa legge universale dalla quale è generato lui stesso. Quindi l’effetto dell’allucinogeno rispecchia, a suo modo ma secondo la Legge unica, la realtà e tutti gli aspetti che la realtà mostra, anche i meno evidenti. Come anche avviene, senza l’aggiunta degli effetti psichici dati dagli allucinogeni, nella realtà che tutti, normalmente, conosciamo. Solo che molti di questi aspetti, in acido sono lì, sfrontatamente davanti, anche se ancora non tutti li possono vedere e decodificare, nemmeno con l’aiuto dell’acido. Ma questi predispone l’individuo (mica tutti), coi suoi effetti sconvolgenti sull’io, alla considerazione degli elementi grandiosi o infimi della realtà, scatenando una sequenza, tanto immaginifica quanto solida di pensieri cosmogonici, di carattere universalizzante, che lasciano senza fiato e a volte anche senza raziocinio. In quei modi dilatati e laterali della coscienza l’osservazione di una famigliola che passeggia può ricondurre il pensiero che stava, per esempio, deviando sul tragico, alla riflessione sulla necessità di associazione nel cosmo e il bisogno dell’altro per la sopravvivenza dell’insieme, che lotta col timore per il diverso da sé; oppure dare la netta sensazione che, in questo insieme, ognuno di noi è una componente incompleta, ma altrettanto indispensabile a quell'insieme.
Dalla grande parte al tutto, dal tutto alla piccola parte si mostra, con evidenza, la relazione analogica che lega le diverse realtà che prendono vita dalla stessa e unica esigenza d’amore, della quale è ricamato l’universo intero ma, soprattutto, che disegna l’intenzione sacra della sua unica e trascendente Causa.

Quando la terra sotto ai piedi si deforma e allunga verso il cielo, prendendone il posto e il cielo, per nulla disturbato, scivola sotto, comunicare diventa arduo, oltre che non necessario.
In acido una semplice occhiata parla per ore e la distanza che separa il vedere dal dire, non è più percorribile. Come viaggiatori nell'ignoto di un sogno faticoso ci piegavamo in avanti, nel vento della difficoltà di essere così lontani dalla tranquillità, al punto di non doverne temere le conseguenze.
Si incrociavano gli sguardi di più persone nello stesso istante, leggendone l'indifferenza o le preoccupazioni, e tra una pietra e l'altra del muretto che segnava il sentiero trascorreva l'apparenza di un'ora in pochi secondi, e quegli stessi secondi ridiventavano, subito dopo, lunghi una giornata.
Io e Patrick ci dividemmo più volte e ci incontrammo ancora, con sguardi stupefatti, dentro quel Cosmo diventato familiarmente diverso, dove tutto era vivo e ti osservava arrancare con le tue certezze ridicole. Arrivò la sera rossastra, ma ancora il trip stava salendo quando, normalmente, sarebbe dovuto scendere.
Era certo colpa di un dosaggio fuori misura il cui effetto avrebbe dovuto, prima o poi, esaurirsi.
L'acido lisergico deve essere diviso in singole dosi, dal laboratorio che lo sintetizza, e questo dosaggio è commisurato al grado di purezza della sua sintesi e purificazione chimica, così che solo gli acidi di qualità elevata che derivano dalla claviceps purpurea possono essere dosati in quantità massiccia, senza avere conseguenze sgradevoli sull'organismo fisico. 
L'insieme delle componenti psichiche, invece… quello è sempre a rischio.
Solo nel culmine di quella notte, stranamente calda e luminosa (era gennaio a mille e ottocento metri di altitudine e c'era la neve) il cuore riprese padronanza di sé, e il viaggio si stabilizzò nei colori e nei suoni più creativi che avessimo mai visto e udito.
In quei momenti realizzai di non avere più una rupia in tasca, di essere a tredicimila chilometri da casa, al freddo, con Patrick (in quasi totale bolletta pure lui) come unico amico, felice di essere ancora un vedente, arruffato e stupido, ma vivo. 
Altri due giorni durò quel trip quando, di solito, dovrebbe scendere dopo un giorno.
Senza dormire, quasi senza mangiare né bere, e con nel cuore e in testa nuove questioni sollevate da quel terribile caos, che andavano ordinate di nuovo, ma non più scopate sotto il tappeto della convenienza bruta, cercavo Carlotta e i miei soldi i quali, ora, per mia necessità erano diventati potenzialmente i suoi.
Fu lei a trovarmi, mi cercava da due giorni e me li rese semplicemente, con un sorriso, preoccupata dall'essersi bevuta un bicchiere di latte pagandolo con loro. Non ricordo nemmeno se la ringraziai, tanto ero emozionato e felice, almeno tanto quanto lo era lei di avermeli resi. Non la rividi mai più, da allora, perché non molto tempo dopo mi ritrovai in una cella di quattro metri quadrati, ma so che della generosità e della bellezza di Carlotta il mondo è pieno, solo che non la si può riconoscere se non nel rischio dell’averne avuto il bisogno.

L'incredibile viaggio nel mio buio non aveva depositato certezze, nella cenere delle sicurezze fasulle che aveva bruciato, ma mi aveva tatuato il sospetto che quella spirale, che permeava quel modo psichedelico di osservare la realtà, fosse più che una modalità ordinante un universo diverso.
Invece che dissuadermi dal riprovarci, l'essere riuscito a sopravvivere a un’esperienza insopportabile mi disponeva a pensare che ce l'avrei fatta ancora, altre volte che si fosse presentata, a sopportare quella fatica terribile pur di avere una qualche possibilità di vedere più chiaro, nel mio buio colorato e misterioso. Continuai per anni a fare trip, spinto da un bisogno di capire che non fu soddisfatto dai trip.
Avevo, destinata a durare poco, ancora tutta la striscia d’assorbenti che avevo comperato dall'Americano e provai, qualche giorno più tardi, ad assumere un quarto di una dose singola allo scopo di capire la proporzione della quantità che avevo preso quella prima volta, con la quantità che si incontra normalmente, quando ci si fa un trip di quelli buoni che ci sono in commercio. Un rosa Pink Floyd, per esempio. Un quartino di quei trip era molto più forte di un Pink Floyd o di un Purple Haze o di una Micropunta nera, o un White California o di un Piramidino in pellicola o un Vulcanino viola ed era paragonabile a un Brown Explosion, che era l'acido più forte che, in Europa, fosse mai stato commercializzato. Quell'ultimo della striscia era il più grosso dei quindici che la componevano, perché risultato di un errore di taglio e piegatura della stessa, e quindi era come se io mi fossi fatto cinque Brown Explosion in una volta sola. Una inimmaginabile follia.
Probabilmente è stato commesso un grave errore di valutazione nella piegatura di quegli assorbenti. L'acido lisergico si misura in microgrammi che sono, ogni microgrammo, la milionesima parte di un grammo, e la dose medio-alta è costituita da circa duecentocinquanta microgrammi. Quindi mille microgrammi sono quattro trip forti, diecimila sono quaranta, centomila sono quattrocento e da un milione, equivalente a un grammo, se ne ricavano quattromila. È quindi facile far casino nel dosaggio, corrispondente al modo di piegatura delle strisce assorbenti.
L'immagine della spirale, con la sensazione della sua possibile importanza, mi accompagnò per molti anni ancora e quando scoprii, finalmente, il suo significato profondo capii, in conseguenza a quello, che quel terribile acido aveva rappresentato il segno di una predestinazione. La predestinazione al dover guardare con lo Spirito che è in me, e a non dover più utilizzare la mente per cercar di penetrare l'esistenza. Esistenza della quale intuisco l’essenza nell'immediatezza della conoscenza dei suoi principi universali. Principi che sono superiori al tempo e che si mostrano solo successivamente alla mente, ma nella loro immediata correlazione con l'Intelletto universale, Centro di ogni realtà. La comunicazione con questo Centro, per prima cosa, concede la conoscenza diretta delle Sue leggi ed è data dalla Sua volontà, che stabilisce l’adeguatezza delle misteriose qualificazioni individuali che aprono alla vista sottile. Per questo conoscere non ho più fatto altre esperienze di ricerca attraverso sostanze. Per questo sono consapevole che il dire della realtà non relativa può solo essere compreso da coloro che questa realtà già sperimentano consapevolmente. Io so per tutto questo, con certezza assoluta, che il vero comprendere non può essere insegnato né comunicato perché ognuno, per volontà del Cielo, deve aver salvaguardata la propria libertà di capire da sé chi è lui stesso e cos'è la vita.

I Monasteri di “cippa lippa”

Ci sono, su questo pianeta, innumerevoli luoghi, in genere organizzati dagli uomini, ma molte altre volte dai demoni, che si occupano di distribuire il “sapere”. Il più delle volte a pagamento, più raramente, ma senza per questo essere granché più onesti, aggratis (più o meno). E frotte d’individui, con l'attitudine della gazza, ne sono attratti. A volte sono capaci di aspettare a lungo e di sacrificare tutto quello che hanno, per avere il privilegio di indossare quello che credono essere il più prezioso gioiello che si può avere dall'esistenza. E per avercelo sbavano, ansimano e spingono e sgomitano, sul sentiero che è in salita verso il basso e che è ornamento volgare dei commercianti del “conoscere”. I venditori delle iniziazioni sono terribilmente ironici e irridono la babbioneria dei viandanti della ricerca esteriore. Sulle spiaggie di Goa, ad Angiuna, in India, ti vendono l'iniziazione anche di secondo grado, saltando il primo, solo dopo che ti hanno infilato un tubo del clistere nel culo allo scopo di purificarti, prima del sacrissimo sapere che, pare, ti s'infili dal didietro in tutta la stazza del suo secondo grado. “Sapere” il quale, tornati in occidente permetterà, a questi nuovi e “avanzati iniziati”, di camminare per strada a mento alto, sussurrando discretamente e a bassissima voce solo agli amici che lo meritano, di essere portatori di qualcosa che loro, i possibili futuri ammiratori, non potranno mai capire, almeno fino a quando non si faranno fare anche loro un “clistere sacro” purificatore. Moltissimi Ashram Indiani, tutti gli agriturismo del reiki, i circoli buddisti di periferia, il retrobottega di alcune sedi fasciste, i buddisti di "sinistra" senza il “dio personale”, i salumieri vegetariani del conoscere a rate a tasso zero e i seguaci degli scrittori di conoscenza che trattano ciò di cui non immaginano la reale portata e la pericolosità del considerare questo ordine di cose, perché, in fondo, manco loro credono a quello di cui sparlano. E la giostra gira, insieme alla testa, di coloro che non capiscono che il dardo del conoscere arriva dall'alto e non dal “dietro”, e non colpisce mai coloro la cui attenzione è rivolta al basso, perché stanno cercando il gioiello nella fogna del guadagno personale dove, a volte, stanno anche delle pietre che, anche quando preziose, non sono nulla rispetto al Sapere del Cielo. Questo conoscere immediato che viene dal Cielo è negato dai libri, è combattuto dai sapienti della terra, dai ricchi del conoscere. Dal Guadagno. Perché questo Conoscere è il Conoscere della perdita. Della perdita dell'egoismo e della ricchezza e dell'orgoglio e dell'odio e della presunzione e dell'ego. Perché il Sé che sta in mezzo a ognuno di noi e nel quale siamo immersi, che è nostra ragione di essere è donazione di Sé. Nient'altro.
È per queste ragioni che tutti i posti del sapere dei quali ho appena accennato possono, a ragione, essere accomunati tutti, sotto il nome di: monasteri di “cippa lippa”.

Dio e il male

Il problema che voglio affrontare riguarda la relazione nella quale si trova l’aspetto personale della Realtà che chiamiamo Dio, e il male che affligge il mondo.
Ne voglio parlare perché ho visto che quando le persone soffrono, o vedono gli altri soffrire, si chiedono il perché Dio non interviene a che questo male cessi.
Dal punto di vista umano ci pare assurdo che Dio possa eliminare il male e non lo faccia o, ancora più assurdo, che lo voglia fare, ma che non possa farlo. Perché sappiamo che Lui è Onnipotente e Misericordioso.
La questione, che ci colpisce così da vicino, riguarda il fatto che il male è una condizione relativa e non assoluta. Quello che chiamiamo "male" è quella realtà che consente al Bene di essere, attraverso una relazione di lotta che ha, come scopo finale, lo stesso scopo dell'esistere. Questo fine è la Conoscenza di sé e della realtà, la quale ci circonda e contiene con i suoi principi, e la conseguente attuazione, nella propria esistenza, dei valori che si sono così conosciuti. Il male relativo al bene e il bene relativo al male ci permettono di vivere, ed entrambi sono la conseguenza delle Leggi che Dio emana nell'esistenza e che sono il Suo riflesso, capovolto come tutti i riflessi.
Ora occorre precisare che l'Onnipotenza di Dio non può annullare ciò che Dio è, inoltre, se si vuole essere rigorosi al Principio che Lui rappresenta, bisogna dire anche che ciò che chiamiamo Dio "è" più dell'esistere oltre al fatto che, essendo Lui il principio dell'esistenza, proprio per questo non partecipa direttamente all'esistenza come, anche nella realtà relativa, nessuna causa partecipa ai suoi propri effetti.
E Dio, che è Libertà totale, Potenza e Atto indissolubilmente uniti irradia, nella realtà relativa, la propria Unità che, nel relativo riflesso, da Immobilità Centrale diviene movimento, da Unicità diventa molteplicità, il sopra necessita del sotto, il dentro del fuori, il superiore dell'inferiore. Il Bene diviene così relativo e, per questa ragione, conterrà il male come una possibilità di essere, e il male, a sua volta, conterrà il germe del bene. Ognuno dei due potrà trasformarsi quindi nell'altro, come il giorno si trasforma nella notte e la notte nel giorno, e questo perché nel giorno è già presente, in potenza, la notte e viceversa nella notte c'è l'embrione della luce. Noi viviamo perché il battito del nostro cuore segue la stessa legge: sistole e diastole sono il nome che noi diamo alle fasi cardiache di questa alternanza. Camminiamo nella stessa armonia di equilibri, muovendo in avanti il piede destro insieme alla mano sinistra e lasciando indietro il piede sinistro e la mano destra. Respiriamo inspirando ed espirando, vegliamo e dormiamo per lo stesso principio. Naturalmente, questa stessa legge comprende e la regola, e l’eccezione a questa regola, entrambe poi si ricompongono nell’Unità dalla quale provengono e alla quale ritornano nel movimento ciclico che è il modulo d’espressione di tutto l’universo manifestato e anche di ciò che manifestato non è. E questa alternanza è legge Divina, che origina e permette la vita intera. Dio può eliminare un male, ma non tutto il male perché, se lo facesse, tutta l'esistenza cesserebbe di avere un fine e si ritirerebbe nella sua Causa, che è Dio stesso. E noi cesseremmo di avere un motivo per esistere e rimarremmo chiusi nella potenzialità dell'imperfezione che è contenuta nella Perfezione.

Contraddizioni implicite e nascoste

Contraddizioni implicite e nascoste

È consuetudine affermare che è più importante condividere il proprio sapere piuttosto che avere ragione oppure, ed è un altro errore analogo al primo, dire che colui il quale pensa di avere ragione sia uno stupido.
Le considerazioni che seguono sono volte a confutare questi due punti di vista limitati e contraddittori.
La realtà relativa che noi tutti, più o meno, conosciamo perché ci siamo, a differenti gradi di profondità o di elevazione, immersi, si esprime attraverso il confronto dei suoi elementi e, di conseguenza, ogni dialettica che consideri questi elementi deve confrontarli a sua volta tra loro, nel particolare o nel generale, dall’individuale all’universale, allo scopo d'individuare concordanze o contraddizioni. Risulta chiaro che il confronto è quindi indispensabile alla comprensione della vita, e che colui che lo rifiuta non è interessato a questa comprensione. Questo però non significa affatto che sia uno stupido. Nella grande maggioranza dei casi lo è, ma non sempre, perché c'è la possibilità che già la possieda nella sua perfezione relativa questa Conoscenza che, per i più, è un mistero. La realtà relativa è sempre in movimento e quelle che paiono complete certezze oggi, si mostreranno essere incomplete domani, perché la relazione mutevole in cui si trovano le realtà mutevoli cambia di continuo e varia al variare dei punti di vista dai quali le si osserva. Se diciamo che lo zucchero è dolce lo possiamo fare perché c'è qualcos'altro amaro che ci dà la misura di questo dolce. Allo stesso modo noi conosciamo la luce per il buio che ce la descrive. È proprio questo confrontare continuo e obbligatorio che rivela la contraddizione di cui ho detto all'inizio, e questo perché quando si considera il relativo, nella sua realtà globale, lo si deve fare nel suo rapporto con ciò che relativo non è. È proprio questo che gli conferisce realtà o che gliela toglie, secondo la prospettiva dalla quale si osserva questa dialettica dinamica. Realtà che, quando considerata dal punto di vista del manifestato relativo, è solida e vera nel suo mutamento, mentre quando valutata attraverso il "Non relativo" essa perde consistenza proprio a ragione del suo mutevole cambiamento che la rende limitata e impermanente.
Se non si vuole considerare il "Non relativo" ci si pone nella condizione di chi crede di poter conoscere il dolce senza sapere dell'amaro, e questo è contraddittorio per chi attribuisce intelligenza al confrontare. In più esiste una gerarchia, e temporale e logica, che ordina il reale rispetto alla sua Causa. È la stessa legge che, anche nel relativo, impone la stessa gerarchia tra ogni causa ed il suo effetto. In altre parole significa che la causa viene prima del suo effetto, in senso temporale, e in quello logico, per il fatto che lo determina, questo effetto. L'Assoluto e "Non relativo" è causa del relativo e lo comprende quindi, dal più alto punto di vista possibile, quello centrale, non è veramente in opposizione col relativo perché lo contiene ma, nel contempo, è necessario a spiegare il relativo. La legge immobile che obbliga il tutto al movimento continuo e che, a sua volta, non può muoversi né cambiare ne è un esempio chiaro: l'asse attorno al quale ruota l'esistenza, il punto unico centrale che irradia l'indefinita miriade di punti della circonferenza sono entrambi simboli, anche nella realtà relativa causata dal Principio che relativo non è e che, a Sua volta, ordina la manifestazione che, in una piccolissima sua parte, noi conosciamo (si fa per dire).
Da tutto questo si dovrebbe anche dedurre che ci sia la possibilità di un essere che conosce il vero, se non ancora nella sua totalità di relazioni, almeno nei suoi principi universalmente veri e che, per questo, non è tenuto a confrontarsi con chi il vero conosce parzialmente solo nel suo cambiamento continuo. Chi se la sente d'immaginare, per esempio, il Cristo in una qualsiasi sorta di polemica?
Come ultima considerazione è necessario dire che il "Non duale e non relativo", nella Sua Essenza, è incomunicabile proprio perché nessuna consequenzialità lo può contenere, e quindi solo la parabola e l'esempio possono dare un'idea dei Principi universali che legiferano, a causa Sua, l'esistenza, mentre per l'insondabile Mistero dell'Assoluto niente lo esprime meglio di questo detto Sufi: Il Mistero è come l'infinità interna della certezza, la quale non può esaurirlo.


Queste considerazioni sono rivolte a tutti, indistintamente, quelli che sono interessati a rifletterci sopra. Nel suo inciampare nelle difficoltà che questo ordine di cose semina ovunque, lo scritto già contiene un esempio di principio universale, ed è quando dice che la legge che obbliga il relativo all'incessante cambiamento è fissa e non sottomessa al continuo mutare che lei stessa impone, così come, per spiegarmi meglio, anche nel relativo ogni causa non è modificata dai suoi effetti, non potendo il fuoco incenerire il calore che lo genera. Questa legge quindi costituisce uno dei Principi universali che regolano l'esistente e, per questo è al di fuori e, come dire, al di sopra della manifestazione e non vi partecipa direttamente. Per questo lo si dice universale. Anche ciò che noi chiamiamo Dio, per la stessa ragione, non partecipa direttamente alla Sua creazione, pur contenendola. In più, l'aspetto affermato e quindi personale di Dio, costituendo la Prima affermazione dell'Unico, proprio per questo è anche la prima determinazione e, come tale, non può mantenere l'Assolutezza, la quale non può essere "affermata" per via della Sua indeterminazione e dell'obbligo che l'Assoluto ha di essere considerabile solo attraverso una negazione la quale, nella dimensione relativa che è essa stessa negazione rispetto all'Assoluto, diviene la migliore affermazione possibile, essendo la negazione di una negazione.
Dio "è" in realtà, più che essere. Per questa ragione chiedersi se Dio esiste è, da questo punto di vista Centrale, una contraddizione in termini. Questo poi, che ho appena chiamato "punto di vista", in realtà non è un punto di vista, ma è "il punto di vista" perché centrale, della realtà, che non ha un opponente dalla parte opposta, come hanno tutte le diverse visuali che stanno sulla superficie della sfera analoga al reale, perché si trova nel Centro di questa simbolica sfera.
Se qualcuno fosse sfiorato dall’idea che ciò che ho appena scritto sia farina del mio sacco, lo devo disilludere, perché nemmeno una parola è mia di questa conoscenza, la quale non è individuale, ma universale e quindi sovra-individuale. Io sono solo un imperfetto e scalcinato "espositore" della conoscenza metafisica che è una come l'Assoluto dal quale proviene, e ricordo che solo la contraddizione ai principi universali, la quale rappresenta la pura impossibilità, le è opposta.

P.S: È, a questo punto, opportuna una citazione di un detto Africano che dice: “Quando si parla dell'UNO... diventano molti...”_________________

“La Verità sta nel mezzo” è un detto mal compreso

Ci sono "luoghi comuni" i quali, alla loro origine, comuni non erano, ma lo sono diventati una volta che sono stati considerati dai limiti intellettivi impliciti nell'incapacità di comprendere il senso profondo della verità.

Il detto degli antichi cinesi che è riassunto dal nome: "Invariabile mezzo", in seguito poco compreso dai latini i quali, in ogni caso, tradussero bene con il concetto che asserisce: “La Virtù sta nel mezzo” traslato anche, e opportunamente, in "La Verità sta nel mezzo", dal momento che la virtù indica il rispetto della verità, si appoggia a una simbologia spaziale per comunicare che la Verità sta nel mezzo dell'ipotetico cerchio della realtà. Questo significa che, preso un piano della spirale dell'esistenza, e intendendolo come se fosse un cerchio, trascurando per comodità la distanza infinitesimale che separa le spire nella vista tridimensionale, la Verità si trova sulla verticale che unisce questo cerchio a quello più elevato e successivo. Questa Verticale si trova nel mezzo perché è il punto di equilibrio del cerchio, essendo equidistante da tutti i punti che si trovano sulla sua circonferenza. Gli antichi saggi non intendevano affatto dire che non esiste il nero e non esiste il bianco, ma che tutto è grigio. Intendevano dire, invece, che ogni piano orizzontale della spirale dell'esistenza è collegato a tutti gli altri dall'asse verticale, che costituisce il riflesso dell'immobile riferimento attorno al quale si esprime la vita. Viene anche chiamato "Volontà del Cielo", o anche "Via di Mezzo". L'essere che esaurisce tutte le possibilità del piano orizzontale sul quale si trova a vivere, inevitabilmente si situa nel centro di questo piano che è l'unica via d'accesso al piano più elevato e successivo. Quando qualcuno non ama la fatica del pensare, taglia sempre corto dicendo che la verità sta nel mezzo e non valuta che, per esempio, la Verità unica non può essere la mediazione di due menzogne, e nemmeno può ridurre una verità, con maggior grado di relatività, avvicinandola alla menzogna che le si contrappone. La Verità è nel mezzo della realtà, perché costituisce la ragione d'essere centrale della realtà. In altre parole il suo Principio, e tutti i punti che si trovano sulla sua irradiata circonferenza, a loro volta sono "veri", quando siano visti nella loro relazione col Centro che li determina e che costituisce, nello stesso istante sovra temporale, sia la loro origine che la loro finalità d’essere, entrambi aspetti di quell'Unità immobile, simbolo manifestato dell’Assoluto, che è l'asse attorno al quale ruota il vortice dell'esistenza. La menzogna, invece, nega il Centro e non si relaziona con Lui, e la difficoltà a essere riconosciuta e scoperta è in relazione al suo grado di sofisticazione che dipende dalla sua vicinanza allo stesso Centro da lei negato. Centro il quale, a sua volta, conferisce alla menzogna il suo proprio grado di verità e quindi anche di realtà. Nel senso che vuole la menzogna essere una “vera” falsità. In definitiva la menzogna è il rifugio della contraddizione ai principi universali che legiferano la realtà relativa e che sono l’emanazione più vicina alla centralità del Mistero dell’Assoluto.
È importante notare che l’entrata nella spira, che delimita un piano qualsiasi della spirale dell’esistenza, appartiene anche all’uscita della spira che la precede, mentre la porzione della spira che si trova all’uscita dal piano è in comune con la spira che segue. L’inizio della spira è la nascita, la fine della spira è la morte. Entrambe queste porzioni di spira non stanno completamente sul piano che da loro è delimitato. Questo significa che la morte in uno stato è la nascita su un altro stato contiguo e diverso. Essendo questa nascita una porzione di spira che non appartiene del tutto alla spira che l’accoglierà, ne deriva che la nascita sfugge alla volontà dell’essere che nasce, il quale non ha la facoltà di decidere se e quando e dove nascere, mentre la morte, pur essendo, in questo continuo movimento, inevitabile all’interno del movimento, potrà, per inversione analogica… rientrare nella facoltà individuale della decisione personale della sua messa in atto. L’inversione analogica è la possibilità data dal fatto che il riflesso di ogni cosa è capovolto come l’immagine che si guarda allo specchio. Così il sotto è come il sopra capovolto, il relativo come l’inversione del suo Principio ma, poiché è contenuto in questo suo Principio… non è in opposizione a Lui, ma solo il Suo mezzo d’espressione, mentre l’Assoluto è rappresentato, nel relativo, dal Centro che è la via di mezzo immobile dell’equilibrio.

Critica a Carlos Castaneda

Carlos Castaneda è stato un mistificatore che, più volente che nolente, ha trasformato il pesante e leggero riflesso del Mistero che chiamiamo "vita", in un sistema di pensiero il quale, dietro un’accattivante apparenza magica, di magico ha solo la capacità di dare forma e peso a ciò che non ne può avere costruendo, in questo modo, una caricatura per ingenui che è parodia della Verità. Castaneda ha voluto dare una fisicità a quello che immagine fisica non può essere, perché appartenente a quella sottilissima sfera che si esprime solo all'Intuire superiore, che è rivolto all’Intelligenza Universale perché suo figlio, ed è anche capace, proprio perché Universale a sua volta e quindi comprendente l'individuale, di esprimersi nell'individuo con la visione del reale, il quale non si muta per questo in immagini fisiche, ma in una superiore certezza che solo secondariamente si evidenzierà agli occhi della mente, ma non con contorni e forme visibili da uno stato di seconda consapevolezza. I contorni e le forme della vita, precedenti all’apertura dello sguardo spirituale, sussisteranno e persisteranno ancora, dopo questa apertura interiore, ma s’illumineranno in una visione superiore che non avrà più necessità di interpretare quella che costituisce la velatura del reale per gli occhi usuali. La certezza che "Vede", vede consapevolmente attraverso il dono di comprendere le connessioni dei minutissimi elementi, invisibili all'occhio esterno, che danno vita e senso al reale. Normalmente le persone, non avendo consapevolezza dei Principi universali, non sono nemmeno in grado di riferirsi alla loro stringente logica consequenziale, la quale ordina gli elementi, grandi o piccolissimi di cui è formata la realtà, che necessariamente sfuggono alla valutazione dell'interpretazione individuale che non possiede la capacità dell’osservare dal Centro dal quale proviene tutto ciò che è.
È l'osservazione della realtà, attraverso i Principi del "Senso dell'Eterno", che conferisce la Visione del Vero universale, senza la falsificazione operata dalla mediazione individuale. In altre parole... non è l'individuo che "Vede", ma il Centro che, esprimendosi nell'individuo consapevole, riconosce la Verità perché l'individuo si scansa dall'interpretarla a suo uso e consumo. Questo scansarsi è il solo “merito” che può arrogarsi questo individuo che comunica col proprio Centro universale e, quando deciderà di uniformarsi a questa centralità… sceglierà, con questa decisione, la possibilità di essere libero.

Critica a Wolfgang Goethe

Quello che è chiamato il “Paradosso di Goethe”, per il fatto che lui è il suo ideatore, cita così: “Il sapere è come una sfera, più è grande, più sarà vasta la superficie di contatto che ha con l’ignoto“. 
È mia intenzione, con l’esposizione che segue, chiarire la radice del grave errore di principio che ha indotto Goethe a formulare questa considerazione contraddittoria, che si appoggia al simbolismo spaziale per definire il rapporto tra la conoscenza e la realtà mutevole:
Se il modo di conoscere può essere rappresentato analogicamente dalla sfera, questo modo di sapere ruoterebbe, secondo Goethe, sulla sua superficie ignorandone il centro. Questo centro, privo di dimensione, non è un qualsiasi punto della sfera, presa a immagine della realtà. Esso costituisce l’origine e la sintesi dei molteplici e divergenti punti di vista, suoi lontani riflessi capovolti, dei quali la circonferenza dell’esistenza si orna. Analogamente al punto geometrico esso non si estende in una forma, che è la definizione di un limite, costituendo il muto rappresentante dell’onnipresenza divina, perché è ovunque presente e invisibile ai sensi, ma non al diretto intuire dell’aspetto superiore dell’intelletto, di cui l'uomo è fornito, che è in grado di vedere, per una via non mediata dalla mente, l’universalità. Universalità che è radice di tutta la manifestazione dell’esistente.
Il punto di vista che rappresenta la conseguenza logica di un principio universale, il quale non può ammettere contraddizioni di sorta, non costituisce più un paradosso perché deve citare così: "L'ignorare è come una sfera, più è piccola, più sarà grande la comprensione dei propri limiti".
Goethe considerava la conoscenza come fosse situata sulla superficie della sfera e non nel Centro di essa. Poiché quella sulla superficie costituisce la conoscenza superficiale e quindi mai esaustiva, mancando della concezione del Centro che è sua causa, si deve perciò dire che questa conoscenza, stesa sulla superficie, è in realtà l'ignoranza. Per questo più diventa grande e più ignora. Per questo la “cultura”, quando è di natura superficiale e sincretica, è puro accumulo nozionistico che ostacola la visione del Vero attraverso la configurazione di pregiudizi.
Per inversione analogica, quando è la conoscenza a essere sulla superficie della sfera, più questa sfera si rimpicciolisce e più il conoscere si avvicina al Centro della sfera, e quindi al punto d'origine dove il sapere trova la sua sintesi,  che è al contempo origine, attraverso l’abbandono della conoscenza superficiale che sempre moltiplica le questioni che dovrebbe esaurire. È solo nel Centro, simbolo della Causa prima dell’esistenza, che la consapevolezza troverà la sua ragione di essere. Solo questi due ultimi punti di vista sono complementari tra loro nella risoluzione comune e centrale, mentre il paradosso di Goethe, essendo una contraddizione in quanto ogni paradosso deve, per definizione implicita, essere una contraddizione ai principi che vorrebbe rappresentare, non costituisce, in quanto paradosso, che una pura impossibilità. 
Ci sarebbe anche il modo di osservare le cose con un’altra chiave interpretativa, quella che vede la sfera ingrandirsi. Questo implicherebbe che se fosse l’ignoranza a essere sulla superficie essa aumenterebbe con l’aumento della stessa, mentre se fosse il sapere… aumenterebbe a propria volta, ma resterebbe sempre privo di consapevolezza della propria, essenziale, centralità. È solo conoscendo la natura del principio che si possono comprendere le successive sue conseguenze. Questi altri due modi, che derivano da altre e diverse chiavi interpretative sono, a loro volta, complementari tra loro rispetto all’ingrandimento che, in questo caso, sostituisce la riduzione della sfera, analogicamente intesa a rappresentare il sapere o l’ignorare. Si deve dire, in definitiva, che tutto ciò che si allontana dal Centro, che è sua causa, compie un ciclo il quale, attraverso la sperimentazione delle proprie possibilità di essere subisce inevitabilmente un degrado, in questo suo allontanamento dalla perfezione del principio che l’ha generato. Esprimendosi, la realtà, attraverso una modalità ciclica, anche questo degrado esaurirà la propria funzione e preparerà le condizioni future di un altro e nuovo ciclo che potrà trovarsi su un livello superiore o inferiore al precedente, in dipendenza della consapevolezza che è riuscito a maturare, e questa legge vale tanto per il conoscere quanto per la vita stessa, sia nei suoi aspetti particolari che in quelli generali, in riferimento sia ai cicli microcosmici che a quelli macrocosmici i quali, inevitabilmente, riflettono le stesse modalità dei cicli minori dai quali sono composti. Lo stesso si deve dire per l'individualità che è compresa nell'universalità e che, per questo, non può comprenderla a propria volta, almeno finché resterà confinata in se stessa. 

Il fascino che ha esercitato e che esercita il paradosso di Goethe dipende dalla sensazione che sia vero e applicabile alla realtà, perché vorrebbe spiegare che più sono le cose che si conoscono e maggiori saranno le nuove questioni che si presenteranno all'intelligenza, in un'amplificazione direttamente proporzionale alla conoscenza che, per questo perverso meccanismo, dovrà necessariamente riconoscersi inadatta al compito che le è stato assegnato dalla sua ragione di essere. In effetti è a ragione che si deve dire che per quel modo di conoscere, usuale e mediato dalla mente razionale, non sia possibile chiudere il cerchio delle risposte ai quesiti che continuamente si pongono, e questo è dovuto al fatto che quel modo mediato e interpretativo, proprio alla natura della mente quando quest'ultima non ha un collegamento diretto con la conoscenza immediata, dunque non relativa, dei principi universali e centrali dell’esistenza. Princìpi che sono i soli a costituire la perfetta origine dalla quale, procedono, a cascata, tutti gli altri principi, a gradi maggiori di relatività che sono proporzionali al loro allontanamento dal principio primo. Quando non c'è la consapevolezza dei principi universali, normativi dell'esistenza, si finisce inevitabilmente nella contraddizione alle leggi stabilite da questi principi, e nella conseguente incomprensione che segna l'incapacità di comprendere la realtà relativa e la sua ragione essenziale d'essere la quale, in quanto causa del relativo, relativa non può più essere.


Critica a Hermann Hesse

In un suo scritto sulle religioni, lo scrittore Herman Hesse magnificava, entusiasta, la risposta di un monaco buddista che, alla domanda fattagli da Alessandro Magno sul senso della vita, così rispose: “Nulla di sacro, aperta distanza!”.
Quel monaco confondeva l’Infinito con l’indefinito, il Sacro col profano. Alessandro aveva incontrato il monaco sbagliato, e Hermann Hesse non è stato in grado di coglierne la differenza.
La conoscenza, sulla superficie della sfera presa a immagine della realtà incontra, nel suo procedere, l’indefinita aperta distanza e ruota continuamente senza poter approdare alla sintesi della certezza assoluta, poiché l’estensione deve escludere l’essenziale, che non è esteso ed è il Principio che la determina, simboleggiato proprio dal Centro. Per questo l'estensione non può essere infinita. L’Infinito non deve escludere nulla perché, se lo facesse, l’esclusione diverrebbe il suo limite. L’indefinito è invece caratterizzato da un limite il quale, come se l’Infinito che l’ha creato lo chiamasse a sé, mentre sta per essere raggiunto si allontana divenendo un orizzonte irraggiungibile. Il drago che si morde la coda (L'Uroboros o Ouroboros o Oroboros della Tradizione) è il simbolo della razionalità che non riesce a comprendere interamente le ragioni della totalità di cui è parte ed effetto, oltre a essere anche quello, su un altro piano più elevato, della ciclicità di tutti gli eventi e dell'esistenza tutta. L’indefinito limite costituisce il confine della manifestazione che può risolversi solo nell’Infinito, il quale, senza contingenze che lo circoscrivono, crea la realtà relativa senza subirne le limitanti conseguenze, poiché la causa non è modificata dal suo effetto. Il fuoco non brucia il calore che lo determina. Hesse aveva una conoscenza "culturale", e non immediata, della Tradizione Vedica Induista, così come del Taoismo e del Buddismo, ma egli proveniva culturalmente dal modo d'intendere la realtà del Sacro propria al protestantesimo, che affida all'individuale, nel suo aspetto relativo e culturale, la comprensione di Principi universali che sono al più basso grado di relatività e solo nel loro rapporto con l'Assoluto, e che possono essere compresi solo dalla comunicazione consapevole col Centro universale che è Causa prima dell'individualità. Questo significa "al di sopra della mente" e in un modo "immediato” e senza distinzione né divisione, tra colui che conosce e la realtà conosciuta. Mai all’individuo che non risiede stabilmente col proprio conoscere nella sfera dell’universale, quindi nel Centro di tutte le realtà, è concessa la conoscenza dei Principi universali e la conseguente capacità di “ragionare” per Principi, escludendo facilmente, con ciò, ogni contraddizione e paradosso, i quali appartengono solo al regno dell’impossibilità.

Aggiungo questo appunto al giudizio espresso sopra su Hesse, ricordando il suo romanzo dal titolo "Il gioco delle perle di vetro", nel quale l'autore racconta di un ipotetico e speciale gioco che è in grado di tradurre la realtà nei suoi intimi meccanismi di principio, come se la realtà fosse il risultato di un meccanismo. Naturalmente di questo magico pallottoliere non dà mai nemmeno una sommaria descrizione di tipo logico, matematico o geometrico, ma non è questa mancanza che deprime. Il mio sconforto di lettore segue la consapevolezza che la totalità non potrà mai essere racchiusa in un sistema che sia qualcosa più che simbolico, essendo il simbolo il rappresentante muto della realtà, perché ne sintetizza i principi attraverso immagini, non altrimenti comunicabili, che evocano intuizioni interiori. Così è per i Tarocchi, per le Rune celtiche, per lo I Ching cinese e per altri microcosmi che racchiudono il macrocosmo, per la legge della corrispondenza analogica che è assicurata dal fatto che il grande deve obbedire alle leggi che regolano il piccolo poiché il grande è il risultato dell'unione dei piccoli. Dalla conoscenza dei principi universali nascono questi insiemi simbolici che, però, mai costituiscono un sistema di pensiero, e questo per un'impossibilità a esserlo derivata da ragioni precise. La più importante delle quali è che la totalità è indefinita nel suo racchiudere un tutto che per essere tutto ha necessità delle eccezioni, mentre ogni sistema ha il vezzo di costituire una sistematizzazione di pensiero che, per definizione, deve escludere ciò che non rientra nei suoi obiettivi e, di norma, quello che esclude è l'essenziale che non può essere colto dalla consequenzialità del pensiero, e quest'assenza della centralità ineffabile rende la sistemizzazione inapplicabile, illusoria e limitante. Un'altra ragione importante è data dal credere che il tutto possa riempire la logica del pensiero. È questa un'altra impossibilità, perché la logica, quando è rispettosa dei principi dai quali deriva e non un'assurda sequela di proposizioni casuali, è conseguenza ed effetto della verità, e in quanto tale non potrà a propria volta contenere interamente il proprio contenitore e comprendere la verità nella sua totalità. Su questa incomprensione di principio, che costituisce un pregiudizio, Hesse ci ha costruito un romanzo spacciandolo per il frutto di una conoscenza superiore che non è mai stata alla sua portata di comprensione.
Vorrei sottolineare che un simbolo, per essere compreso nella sua interezza, deve essere considerato non soltanto per ciò che contiene, ma anche per quello che esclude, e un simbolo universale non esclude nulla. Il Tao, per esempio, costituisce la rappresentazione piana, bidimensionale quindi, della spirale che è modulo del movimento ciclico universale, la quale ha un centro fisso che è asse, ed è racchiusa da una circonferenza. Il fatto che sia piana non esclude la vista tridimensionale, né la sua rotazione e neppure il fatto che la circonferenza diviene la distanza infinitesimale che misura e differenzia le spire tra loro. Occorre ricordare che in questo simbolo anche il nulla esterno dal quale esso è contenuto ha il suo senso simbolico.