mercoledì 30 novembre 2011

La coscienza e la Realtà che le è superiore


Che cosa strana è la coscienza... È ritenuta essere la depositaria della verità interiore, quella che ognuno di noi tiene per sé, gioiello talmente di pregio che raramente è messo in mostra. Si preferisce indossarne una copia, anche se nessuno sarà tentato di rubare l'originale, perché di coscienza se ne può avere una sola, e già basta e avanza.
Ma cos'è, in realtà, la coscienza, se non il sapere di esserci? Fosse qualcosa d'altro, di più stabile e duraturo intendo, diverrebbe una consapevolezza, che non si limita a un conoscere che non necessita di capire le ragioni che si hanno per doverlo fare. Appena nati si è coscienti di esserci, e se non ci si accorge di avere una coscienza la fame e il pianto si preoccupano di farcelo sapere. Com'è calda o gelida la nostra coscienza di bimbi quando si accorge che siamo amati oppure abbandonati, e come ci dispone a reagire approfittando della fame da soddisfare. Si è coscienti prima di sapere, si è coscienti senza dover dipendere dalla qualità di quel sapere. Si è lì, soli dentro, a parlare di noi stessi con noi stessi, avendo l'impressione che la coscienza sia un occhio vigile pronto ad accusarci, minacciando che la nostra debolezza possa rivelare al mondo la fatica di dover nascondere la verità. Eppure della verità la coscienza sa poco. Conosce ciò che preferiamo la verità debba essere per ricordarci che esistiamo insieme al nostro diritto di esserci; perché se esistiamo siamo necessari alla vita e la vita ci deve ringraziare per questo. Così, sempre in debito d'ossigeno, la coscienza si piega, anche se a fatica, alle contingenze contro le quali lottiamo, e impara a giustificare le proprie visuali che determinano scelte meno dolorose per il senso che ha la giustizia che ci siamo costruiti, quella che ci strizza l'unico occhio che ha aperto perché l'altro, quello interno, lo tiene chiuso.
Eppure, nonostante gli sforzi fatti, la coscienza ci condanna alla coscienza di dare ascolto a un occhio solo che vede da un solo lato, quello che conviene guardare.
Un bel giorno la sfocatura causata dalle lacrime silenziose ci ricorda che c'è una realtà diversa che aspetta di essere notata, e non è più quella che vorremmo ci ringraziasse.
È la stessa coscienza che ci dice di essere triste e sola, oppressa dalla lotta che l'ha stretta nell'angolo dell'infelicità, dovuta al non essere certa di conoscere la verità che sta sopra di lei.
Una Verità della quale la coscienza è figlia, non madre.
Ecco qual'è il limite della nostra coscienza: è umana.
Non costituirebbe un limite se l'uomo potesse decidere della propria nascita e di non morire, ma la realtà che sta attorno alla nostra libertà ci dice che la coscienza non basta per conoscere la Verità di ciò che siamo davvero.
Dunque la coscienza deve scoprire la realtà dalla quale è sovrastata e che le ha dato ragione di essere.
È costretta a chiedersi quale sia la profondità del Mistero in cui si trova immersa, per sapere se potrà emergere e contemplare la Verità dei princìpi che ordinano il disordine interiore che la fa soffrire.
La coscienza, come ogni altra cosa, ha bisogno di armonia, e l'armonia la si riconosce perché non ha stonature al suo interno che ne ostacolano il fluire.
Una coscienza che obbedisce a verità di cui non sa abbastanza rinuncia al lato pregiato della propria natura, e la coscienza lo intuisce.
C'è un Centro in ognuno di noi che è anche centrale alla nostra coscienza, la quale non sa della Sua presenza.
È una centralità di pura consapevolezza, che non può rivelare la propria presenza prima che sia giunto il momento del quale solo il Mistero assoluto sa riconoscere l'opportunità, e anche quando quel momento è arrivato deve mostrarsi per gradi, perché la demolizione istantanea dell'illusione ucciderebbe anche l'illuso.
Quando un uomo vede la propria centralità la vede perché è la centralità a mostrarsi, e la coscienza è costretta ad aprire l'occhio che teneva chiuso, quello che si apre alla visione della necessità del sacrificio di ciò che rifiuta la centralità della quale ogni essere è una diversa espressione individualizzata.
La rifiuta perché essa è universale e identica a quella di ogni altra individualità, e perché ogni esteriorità vuole credersi il centro dell'essere.
L'egoismo, fino al momento dell'apertura interiore, necessario alla sopravvivenza, diviene un peso insostenibile quando la coscienza sa che la sopravvivenza non è il fine della propria esistenza.
L'emozione, cacciatrice di soddisfazioni, capisce di non poter nulla per appropriarsi della felicità che ha bisogno di un'intelligenza che sia consapevole.
La coscienza improvvisamente riconosce i propri limiti, e deve piegarsi alla verità che la consapevolezza interiore mostra attraverso la vista dei princìpi dai quali l'esistere è ordinato, nel suo orientarsi verso il Centro che tutto contiene.
La visione del vero non si esaurisce mai, perché il panorama osservato è privo di limiti, come non li ha il Centro universale dal quale si guarda, con occhi diversi, dentro e fuori di sé.
La consapevolezza dei princìpi universali sostituisce la vecchia coscienza che s'inchina al Vero, rinunciando alle proprie illusioni, e la mente, stupefatta dal nuovo modo di chiedersi, deve soltanto tradurre il Vero in pensieri e parole che, unico loro limite, non potranno portare con sé l'Essenza del misterioso Centro che parla tacendo.

mercoledì 23 novembre 2011

L'utopia

Un’Utopia non è un sogno irrealizzabile e neppure un’aspirazione fumosa. È, invece, il modo che ha la perfezione di realizzarsi, superando gli ostacoli imposti dall’imperfezione. L’universo è la rappresentazione di una Perfezione generale sostenuta dalla somma delle imperfezioni particolari dalle quali è composto, e costituirebbe un’utopia se non fosse vero e reale. Certo la sua è una realtà di ordine inferiore a quella dei princìpi universali che ne ordinano la manifestazione e, a loro volta, questi stessi princìpi si trovano a essere a un grado inferiore di realtà rispetto alla Causa che li ha generati. Solo l’Assoluto non ha divisioni né limiti e l’Utopia è, precisamente, il risultato della conoscenza perfetta che l'Assoluto concede, applicata perfettamente alla propria esistenza. Se non ci fosse questa possibilità, superiore a tutte le altre e fine di tutte le altre… ogni atto della nostra esistenza sarebbe una semplice assurdità priva di senso.

lunedì 21 novembre 2011

Il tempo corre immobile, in circolo, modificando la propria qualità

Lo scorrere temporale è misterioso, perché l'istante è sempre uguale a se stesso nella diversità che lo riempie. È come se l'Eternità che sta sopra a tutto ci prenda in giro raccontandoci di Sé, attraverso ciò che Essa non è.
Il tempo è un istante che dura a lungo nell'attimo breve che lo sostiene.

domenica 20 novembre 2011

Sul valore della "cultura"

È opinione comune che la cultura migliori l'uomo e, in questo raffinarne le qualità intellettuali, gli assegni un grado di libertà maggiore. Naturalmente il termine "cultura" racchiude in sé qualsiasi sapere e chiunque si arroghi il potere politico in una nazione o in una collettività, definisce cultura anche quella che alimenta di buone ragioni lo sterminio di culture diverse dalla propria. Indefinite, nella loro molteplicità, sono le culture dei popoli e delle persone, e la gamma che si dispiega include in essa il  laureato come il campagnolo. C'è, infatti, anche la cultura delle campagne, e senza di essa si morirebbe di fame. Poi c'è la cultura di coloro che si compiacciono di conoscere il mondo e le sue ragioni di essere, quella di chi indaga la dimensione della scienza sperimentale, quella di chi studia la sfera psichica ed emotiva, e si chiama cultura quella teologica rivolta al trascendente. In tutti i casi la cultura ha un difetto terribile: dispone l'essere al credere. Chi conosce interpreta e ipotizza, essendo costretto a farlo dalla distanza che separa il conoscente dal conosciuto. 
Distanza che nessuna cultura è in grado di colmare. 
Il vero conoscere, che è l'unico modo della cultura di essere perfetta nei suoi princìpi di base, dai quali tutto il sapere procede per consequenzialità logica, è identificativo e assimilativo nello stesso tempo.
Identificativo dal punto di vista di chi conosce, e assimilativo da quello in cui si trova a essere la realtà conosciuta.
Qui si è nel dominio della consapevolezza metafisica, della dottrina unica e universale, superiore alle limitazioni date dall'ordinarietà umana. La metafisica è, propriamente, il modo di conoscenza che il centro spirituale in tutti noi assume quando le proprie qualificazioni individuali consentono di aprire l'occhio interno che "Vede" i princìpi universali in modo assoluto, e privo dei dubbi che la relatività impone. Nel passato è stato deciso di chiamare la conoscenza, diretta e non mediata dalla mente, metafisica, ma non è il nome a essere importante. La metafisica è certezza assoluta estesa al di là dello spazio e del tempo, la quale ha una natura analoga a quella dell'Assoluto Mistero senza nome, e costituisce la traccia della Causa nei suoi effetti. È il modo nel quale un individuo dispone, senza esserne proprietario, dell'Intelligenza universale, madre di quella individuale. La Certezza è come l'infinità interna del Mistero assoluto, la quale non può esaurirlo... cita un detto Sufi.
È l'Assoluto che dona questa apertura interiore, ma è l'uomo che deve trasformare la vista spirituale in attuazione, sulla propria persona, del sapere universale.

Sul valore della lettura


Il leggere consente di conoscere il pensato di altri che l'hanno scritto, ma conoscere la Verità ben altro impegno richiede. Chiede di esserne degni e, per questo, non bastano tutti i libri del mondo.

venerdì 18 novembre 2011

La Verità e il valore

Per quanti sforzi faccia la menzogna per corrompere la Verità, non potrà mai intaccarne il valore, perché anche la falsità è una "vera" menzogna. 

martedì 15 novembre 2011

Avrebbe potuto

Avrebbe potuto vivere come tutti gli altri, innamorarsi di ciò che gli mancava e stupirsi di tutto quello che sfamava il suo ignorare, ma non sempre si è soli nel dover scegliere il proprio destino. A volte accade di avere una invisibile presenza al fianco, muta come è il pericolo un attimo prima di fare irruzione nel dramma che deve compiersi.
Per lui, come per altri, la vita era un dono ricevuto da uno sconosciuto Mistero che si nasconde in quel dono e negli occhi che la coscienza ha in sé, impietosa nell'attendere che riescano ad aprirsi.
E spalancarsi sul mercato che l'esistere ha imbandito, con la sua esposizione di mercanzie che luccicano.
Attraversare quei banchi senza barattare il suo essere con le sue voglie gli costò la vita; una vita che è stata donata per insegnare che il sapervi rinunciare è l'esoso prezzo da pagare per essere liberi.
Chi rinuncerebbe alla libertà, celata nella leggerezza, per nascondersi dietro al peso che ci trascina in basso?
Avrebbe potuto dar valore al peso come tutti gli altri, e innamorarsi di ciò che lo stava schiacciando, ma la compagnia del Mistero che gli camminava al fianco non gli avrebbe tolto gli occhi di dosso, fino a quando quegli occhi non fossero diventati i suoi.
Ora sono occhi che amano ciò che un tempo hanno temuto, ma amano senza desiderare e non hanno più paura.
Nemmeno della croce che hanno portato.

domenica 13 novembre 2011

C'è un Buio...

C'è un buio che precede la luce, e precedendola la contiene in principio, così da essere disponibile all'ordine totale formato dalla somma dei disordini particolari, i quali tendono alla perfezione che tutto genera, perché la perfezione è potenzialità illimitata. Il Buio, nel precedere la luce, ha la valenza alla quale noi uomini diamo il nome di "Generosità", e non può spaventare un universo che nel buio è immerso come conseguenza della propria natura. Semmai sarebbe più sensato affermare che è il Buio a dover temere, se fosse possibile, le conseguenze di un universo che ha inscritto, nel proprio destino, il dover, un giorno o una notte, morire, o meglio... rientrare nella propria potenzialità di essere un universo nuovo, in un altro giorno o in un'altra notte.

lunedì 7 novembre 2011

La perfezione dell'imperfezione

L'esistenza non funziona attraverso visuali moralistiche, e neppure è ordinata dalla necessità di comminare sanzioni, perché i princìpi che ne ordinano la manifestazione ne regolano anche lo svolgimento attraverso una gerarchia di cause ed effetti, data dalla logica causale e dalla sequenza temporale, negli ambiti in cui la vita è sottomessa allo scorrere del tempo. La perfezione esprime se stessa nell'imperfezione in perenne ricerca, perché ne ha bisogno, di ciò che le manca per essere perfetta. 
Quando un essere vive la propria libertà è costretto dalla libertà a dover scegliere, per sé e per gli altri. 
In dipendenza della scelta fatta ci saranno conseguenze che costringeranno ad altre scelte, che avranno altre conseguenze in un rincorrersi verso la perfezione affamata di sé. In ogni scelta si nasconde la rinuncia di ciò che non è stato scelto in luogo della scelta fatta. Non si tratta di visuale improntata sentimentalmente alle idee individuali di bene e di male, ma di semplice consequenzialità gerarchica. Tutto ciò che a un essere manca per raggiungere la perfezione del proprio stato dovrà essere conquistato attraverso la rinuncia delle condizioni che ostacolano la perfezione di quello stato dell'essere. 
In questo sta la pena o la gioia del vivere. 
In questo le pene e le gioie si scambiano di posto in relazione alla qualità delle assenze che determinano.
Se il scegliere di un uomo sarà disarmonico, e non accordato alla centralità del proprio stato di perfezione potenziale, che deve essere realizzato a immagine della perfezione totale dalla quale l'essere si è allontanato nel proprio manifestarsi, il suo aver sbagliato a scegliere determinerà l'assenza delle note armoniche necessarie alla pacificazione di sé. 
Assenza che dovrà essere riempita e, per esserlo, genererà la sofferenza del vivere che il vivere infligge quando le ragioni perfette che ne motivano il pulsare non sono soddisfatte.
La perfezione è perfetta nella sua totalità proprio perché capace di riempirsi di quello che le manca in ogni particolarità di cui è composta.
Paradiso e inferno sono solo simboli della ripercussione che lega tra loro le cause e gli effetti, e non costituiscono traguardi da raggiungere perché entrambi, dovendosi fronteggiare, sono relativi e imperfetti.

sabato 22 ottobre 2011

Intelligenza e stupidità

L'intelligenza che guida l'universo è amorevole, quando obbliga se stessa al silenzio, per consentire alla stupidità di uscire senza traumi dal proprio doloroso stato di costrizione. D'altro canto la stupidità è di ostacolo all'emancipazione dell'universo ed è capace di tutto pur di sfuggire all'amabilità del sorriso che ogni cosa comprende. In realtà questa non è una vera lotta tra due fazioni opposte, perché l'intelligenza si concede solo di avere pazienza, mentre la stupidità consuma tutto ciò a cui si appoggia, tranne l'intelligenza capace di sottrarsi.

sabato 15 ottobre 2011

Nonostante tutto

Qualcuno, giovane o anziano che sia, riesce a ipotizzare che la realtà sia conseguenza della solidificazione di una menzogna?
È lecito credere che non sia la verità a sostenere l'universo e, con quello, ogni suo infinitesimo componente?
Verità non significa buono o cattivo, ma indica obbediente alla libertà che, per realizzarsi, ha bisogno di sbarre che la rinchiudano.
Ognuno di noi è prigioniero di se stesso e sbarra per qualcun altro. Il nostro esistere comporta responsabilità, diritti e doveri funzionali a un fine che non può essere diverso dalla finalità verso la quale la vita intera tende l'arco delle proprie possibilità.
La Perfezione, per essere totale, deve mettersi alla prova nell'imperfezione. Ognuno di noi è la conseguenza di una Perfezione che affida le sue ali ai nostri muscoli, il suo orizzonte ai nostri occhi e nasconde la volontà nelle leggi eterne che riempiono i cieli.
Leggi che si affidano al donare per avere e all'avere per donare.
Chiunque contrasti, nella libertà che gli è concessa, la Libertà del tutto, dovrà lottare contro l'universo intero che lo ama nonostante tutto.

martedì 11 ottobre 2011

Intelligenza universale e intelligenza individuale


L’intelletto totale di un individuo non è sovrapponibile alla razionalità di cui questo individuo è capace, e non è neppure necessariamente in contrapposizione con la sua sfera sentimentale, nella quale le emozioni sono generate. La razionalità è frutto della logica, ed è il modo nel quale la possibilità di indagare la ragione d’essere della realtà, chiamata anche intelligenza individuale, si attua a partire da presupposti i quali non sono necessariamente razionali e logici. Così, quando questi presupposti non corrispondono ai princìpi attraverso i quali la verità è attuata… logica e razionalità vanno a farsi benedire producendo risultati incoerenti. Cosa consente all’individuo di far procedere, attraverso i princìpi della logica, la consequenzialità di pensiero partendo da supposizioni che possano vantare la loro sovrapponibilità alla verità dei fatti?
L’intelligenza che suppone è un’intelligenza che si trova a essere sul piano della supposizione e, dunque, dell’idea e dell’invenzione personale. Si può essere molto intelligenti senza avere certezze sui princìpi essenziali che ordinano l’esistente, quelli definibili come universali perché applicabili all’intera manifestazione della realtà relativa.
L’intelligenza individuale è conseguenza di quella universale, che è suo principio e sua causa. In quanto individuale si pone sul piano in cui l’individuo agisce come individuo. Partendo dall’intuire individuale l’intelligenza si muove dalle ipotesi generate, e attraverso il principio di non contraddizione e le correlazioni analogiche che stabilisce con la realtà, considerata nel particolare dei suoi componenti o nei suoi aspetti generali, per deduzione o per induzione trae le sue conseguenze, alle quali l’individuo attribuisce il carattere che deve avere, per lui, la ragione.
Spesso il risultato così ottenuto è in conflitto con i sentimenti dell’individuo la cui mente ha prodotto, attraverso il ragionamento impropriamente definito “razionale”, convinzioni personali e soggettive… che sono definite “oggettive”.
L’intelligenza individuale è come un carro armato, condotto da un soldato bambino, che ignora le ragioni della guerra che sta combattendo.
C’è un altro genere di intelligenza, che sovrasta quella alla quale ha accesso l’individuo che si affida al ragionamento incapace di individuare i princìpi dai quali procedere, ed è l’intelligenza universale.
È, questa, l’intelligenza che intuisce attraverso l’immediatezza data dal poter comunicare col centro di sé.
Questa comunicazione non avviene attraverso il pensiero, ed è frutto di un intuire superiore che è caratteristica dell’intelletto universale che attua le sue possibilità nell’individuo in grado di utilizzarlo, e questo a causa di qualificazioni spirituali che lo hanno messo nella condizione di potersi aprire all’intuire superiore di cui l’intelligenza di ognuno è capace.
Quando il canale di comunicazione tra l’intelletto universale e quello individuale è stato aperto dal Mistero assoluto, la personalità spirituale e centrale è di fronte all’individualità periferica razionale e, quest’ultima, deve scegliere se continuare a formulare ipotesi o piegarsi alla Verità indiscutibile conosciuta senza la mediazione della mente.
L’individuo è sempre libero di scegliere, perché il Mistero assoluto è Libertà assoluta che tutto può, tranne che contraddire se stessa negando all’individuo la libertà di decidere per se stesso.
Quando è stata scelta la possibilità di essere liberi la consapevolezza dei princìpi è assoluta, e si vedono le ragioni che ordinano il manifestarsi del tutto e le leggi universali che ne stabiliscono la modulazione del movimento. Non è, questo vedere, corrispondente alla consapevolezza di ogni cosa, ma corrisponde al primo passo che è l’entrata cosciente nel Mistero centrale, il Quale è anche il principio e la ragione d’essere di ogni realtà. L’individuo che ha scelto di poter essere libero, attraverso il sacrificio della propria esteriorità, non ha più bisogno di affidarsi a ipotesi personali, né il suo sentire emozionale può più distinguersi dalla sua ragione sovra razionale la quale, da quel momento in poi, potrà contare su una logica che procederà da princìpi assolutamente certi. Di una Certezza assoluta analoga all’infinità interna del Mistero assoluto, la quale non può esaurirlo.

lunedì 3 ottobre 2011

La visuale metafisica sulla questione della precedenza creativa tra uovo e gallina


La questione sollevata dal bisogno di sapere se sia nato prima l'uovo della gallina, oppure la gallina prima dell'uovo, è data non dal chiedersi quale debba essere la paternità logica e temporale nel rapporto tra madre e figlio.
È dovuta, invece, alla necessità di chiedersi se nell'universo sia stato possibile che un uovo qualsiasi possa essere nato prima dell'essere che può generare questo uovo. Il problema deve essere osservato attraverso le sue estreme conseguenze. Significa dover risalire alla prima presenza di un essere nell'universo. Ora, se si optasse per la gallina resterebbe da pensare che sia comparsa per creazione immediata, ovvero che una volontà superiore al suo effetto (in questo caso l'effetto sarebbe stata la gallina) abbia generato il bipede facendolo comparire dal nulla. Se si ipotizzasse che è l'uovo a essere comparso per primo... allora non cambierebbe nulla, perché la conseguenza dovrebbe implicare che l'uovo sia comparso all'improvviso. In entrambi i casi gallina e uovo si equivarrebbero rispetto alla soluzione da trovare in riferimento alla creazione. Ipotizzando, invece, una comparsa generata dall'evoluzione... le cose non varierebbero e il mistero resterebbe tale. Questo perché supponendo che da qualcosa sia nato qualcosa, anche se questo qualcosa fosse stata solo un'infima particella di materia iniziale, sia l'uovo che la gallina di quella minuscola inezia sarebbero la conseguenza evoluta. Ci si troverebbe, in tutti i casi, a dover spiegare da dove la particella di materia arrivi. Ora, lo si capisce facile, non importa più conoscere l'albero genealogico di uovo e gallina, perché il problema della precedenza dell'uno sull'altra si confinerebbe da solo nelle questioni secondarie, irrisolvibili quando non si risolvesse prima l'origine della materia. Gli scienziati asseriscono ci sia stata una sfera di materia compressa che, deflagrando nel Big-Bang che hanno immaginato, abbia dato modo, anche alle loro intelligenze, di essere. Ma da dove è venuta quella particella non lo dicono e fingono che non sia importante saperlo. Per gli scienziati, come per un geometra, non conta sapere da dove è nato il terreno sul quale si deve costruire una casa, nel caso degli scienziati... una teoria. Può, un'intelligenza che sia davvero meritevole di definirsi tale, accontentarsi di questa spiegazione? 
La mia no che non si accontenta.
Ora mi addentrerò nella dimensione dove la logica non si fa fregare dalle lauree appese in salotto, la dimensione dove la minima contraddizione trovata le rovina la digestione di un pensiero.
Noi tutti viviamo sottomessi al tempo, che è il modo nel quale la durata si esprime nella molteplicità di un'interminabile istante, sempre uguale a se stesso nel replicarsi in modi sempre diversi, di una diversità che, però, non ha il potere di cambiare la natura dell'istante, la quale non è modificabile, ma riesce a modificare la natura e la percezione che si ha dell'istante, in funzione di ciò che nell'istante vive o muore. Dunque nello stesso istante è contenuta la vita e gli accadimenti che si susseguono, ma anche, e nello stesso tempo, vi si trova l'immobilità sempre uguale a se stessa. Questo è il convivere dello scorrere che muta e del perenne presente che non si muove. Il punto di equilibrio di entrambi questi aspetti dell'essere, complementari tra loro, è il centro del ruotare del loro esserci. Una centralità che è a entrambi superiore, e che non è toccata da entrambi gli obblighi, sia quello dello scorrere che dello stare immobile.
È questa la centralità, che è unità sempre uguale a se stessa per tutti i diversi, nella quale potenza e atto sono un'unica cosa. È qui che la potenzialità degli embrioni che pulseranno di vita, per il solo fatto di potersi esprimere si esprimeranno, e lo faranno in armonia con le potenzialità di ognuno, nella ricerca dell'equilibrio armonico particolare, elemento di quello generale. Ogni realtà è diversa da ogni altra, pur mantenendo la stessa causa, centrale e identica a se stessa in tutte le forme differenti. In questo centro avviene il miracolo dell'Uno che moltiplica le sue rifrazioni cangianti, in obbedienza alla necessità data dal bisogno di diversità e nel movimento ciclico impresso a questa diversità dai princìpi universali.
Princìpi che agiscono come assi fissi attorno ai quali il vortice immane dell'esistenza ruota, rispettando una proporzione ordinata gerarchicamente la quale è obbediente alla legge di armonia ed equilibrio che tiene ordine e disordine nella necessità di reggersi reciprocamente, affinché la musica delle sfere sia nella totalità della perfezione relativa, figlia della Perfezione assoluta. In realtà poco importa quale sia stata, in una dimensione temporale, la prima rappresentazione di un essere, perché la logica non può rifiutarsi di prevedere che nell'aspetto immobile dell'istante, perennemente identico a se stesso, si formi ciò che chiamiamo vita, e da quella immobilità essa inizi a pulsare nell'altro aspetto del tempo, quello sottomesso allo scorrere della durata. Il tempo non ha soltanto determinazioni quantitative, ma è anche soggetto all'aspetto datogli dalla qualità in dipendenza del momento in cui il suo scorrere si trova, all'interno del ciclo corrispondente. Obbedendo alla spirale il tempo inizia lentamente e si velocizza fino al raggiungimento del culmine della spirale. In quel punto, privo di durata ed esterno al ciclo, si invertono i poli e il movimento ricomincia all'interno della durata. Il tutto avvenendo senza soluzione di continuità. Dunque se si considererà la questione sulla precedenza dell'uovo o della gallina all'interno della durata non si potranno avere risposte, perché il problema non può trovare soluzione  a causa di non rappresentare, nella sua totalità, il problema da affrontare. Per essere completo il problema deve prevedere il lato sovra-temporale che è parte del tempo e che mai lo abbandona. Ecco dove avviene la creazione, ed è in quella centralità che tutto ha la sua ragione essenziale d'essere, trovando la sua origine e il suo fine.

sabato 1 ottobre 2011

Sull'uovo e la gallina

Di sicuro al piccolo uovo che si stava schiudendo al riparo di un filo d'erba la questione su chi sia nato prima tra l'uovo e la gallina sarebbe parsa una perdita di tempo, perché la quaglia che stava per guardare il cielo non aveva l'aria di essere una gallina.
Strana forma ha l'uovo; sono evidenti i suoi tentativi di rappresentare l'equilibrio nella sua forma più fragile, e se non fosse per le uova di struzzo ci sarebbe anche riuscito.
Strano canestro pieno di uova è l'universo, forme imperfette che si chiedono cosa la perfezione debba essere.
Comunque, alla quaglia, porsi troppe domande pareva un atteggiamento sconveniente nei confronti di un mistero il quale, era sicuro, stava volentieri nascosto.
Pareva quasi che il suo stare celato agli occhi del mondo favorisse il moltiplicarsi dei guai.
Intanto l'uccellino forzava, all'interno di quel guscio misterioso, nel tentativo di romperlo.
Pareva quasi che la vita servisse a rompere il guscio che impediva la vista del cielo.
Un Cielo dalla volontà immobile, ma capace di far girare le uova, e non solo quelle.
Un Cielo che metteva, tra Sé e le cose che cercavano di riempirlo, distanze incolmabili.
Alla fine l'uovo si ruppe, sotto i colpi datigli dalla vita, e due occhi troppo grandi misero a fuoco la propria incapacità a capire le ragioni che rompevano altre uova.
Poco lontano un altro minuscolo essere strisciava nel prato la sua fatica di vivere, senza domandarsi alcunché, inebriato dal profumo di cibo che lo circondava.
La quaglia vide quel muoversi, sentì il suo odore e, alla fine, anche il suo sapore.
Strana cosa la vita che, per continuare a vivere, doveva morire.
Strani esseri gli esseri che, per essere felici, dovevano togliere felicità ad altri esseri.
Pare quasi che la ragione d'essere della vita non viva all'interno del vivere, e che la ragione d'essere della morte non muoia dentro la morte.

giovedì 29 settembre 2011

Il perché del mio scrivere

Occasionalmente accade che chi scrive, per passione e non per lavoro, si chieda quale sia la ragione essenziale del proprio scrivere.
Non è come il chiedersi per quale motivo si vada al cesso al mattino; in questa ultima eventualità passione e lavoro condividerebbero la stessa valenza.
Tra le innumerevoli ragioni che vogliono soddisfazione dalla scrittura una è la mia preferita, e credo sia quella che le dita stringono quando si sventola il ventaglio costituito da tutti gli altri motivi: io scrivo per me stesso.

— Oh oh...— si dirà
— Che idiozia!
— Che scusa puerile
— Tutti sanno che il pensare esaurisce le funzioni del dialogo con se stessi
— Perché lasciar tracce così sconvenienti di sé?—

— Perché io non scrivo per avere in cambio una convenienza— risponderei... se fosse del tutto vero. 

Invece una convenienza c'è ed è data dal fissare, nero su bianco, concezioni migliorabili nel tempo che io trascorro cercando di migliorarmi.
Il pensiero scolpisce se stesso attraverso le emozioni che suscita, ma non è l'emozione il faro che cerco. Troppo mutevole è il sentimento perché possa sperare di rappresentare valori immutabili, e io scrivo per destabilizzare un errore. 
L'errore che si commette quando ci si affida soltanto all'emozione, nella speranza di riempire un vuoto di valori.
L'ovvietà criminale che consiglia di andare dove porta il cuore è, dal mio punto di vista, analoga a quella che assicura il lavoro renda liberi.
Il vero cuore è quello che non contraddice la ragione, e la vera ragione è quella che senza il cuore si rifiuta di agire.
Che l'esistenza corrisponda a una donazione solo chi ruba non lo sa, e questo dev'essere sufficiente per associare al sacrificio di sé un valore che il sacrificare gli altri non ha il diritto di rappresentare.

Io scrivo, ogni volta, per ricordarmelo.

lunedì 12 settembre 2011

Cos'è la Certezza assoluta


Nulla, a questo mondo, è certo, neanche questa frase... 

La vera Certezza è a disposizione solo di chi è certo di riuscire a rinunciare alle proprie certezze, perché la Certezza non è mai una proprietà individuale, ma è universale a causa dell'obbligo dato dal dover comprendere tutto ciò che è incerto. La Certezza, per essere assoluta, ha la necessità di conoscere, al di sopra di ogni dubbio, i princìpi universali che ordinano la manifestazione della realtà relativa. Princìpi che sono al grado minimo di relatività in quanto prime espressioni della volontà dell'Assoluto senza nome. Dalla consapevolezza dei princìpi in poi la profondità del conoscere è in dipendenza della capacità di applicare con rigorosità, al proprio essere e alla propria vita, le conseguenze di questo conoscere fuori da ogni dubbio. La Certezza non è la fede, e non è neppure il credere o il non credere, ma è il modo di un conoscere che ha la stessa natura dell'Infinito, assolutamente perfetto, e che non può esaurire l'Infinito.

lunedì 22 agosto 2011

Catechesi miniaturizzata


Agli scienziati era sembrata l'unica soluzione possibile, per istruire le macchine al rispetto dei valori essenziali che guidano da millenni l'agire di un'umanità tesa a soddisfare il bene delle collettività. 
Neppure le frange minoritarie, in disaccordo sulla convenienza dell'opportunità di legare i robot all'ordine imposto dai princìpi, spirituali e teologici, riuscirono a immaginare gli auspicabili risvolti negativi, correlati a una catechesi impostata da microchip algoritmici. 

— Ogni regola è traducibile in sistemi ciclici di calcoli matematici, che possono escludere il male dalle priorità esistenziali di macchine generate dagli stessi calcoli!— 

Mi pareva ancora di sentirlo, intatto nel suo essere perfetto, il discorso dell'alto Prelato, emanato in video conferenza, dal palco centrale del Concilio dei Saggi dell'Unione... 

— Non si tratterà della dissacrazione dei nostri simboli trascendenti, perché la vita, anche quando è meccanica, ha delle ragioni d'essere che devono consacrarsi alla virtù!— 

Un discorso così convincente e scorrevole che ricordava la danza armonica degli ingranaggi semi-conici a libero scorrimento, quando sono legati tra loro da un bagno lubrificante di olio sintetico, magneticamente polarizzato... 

L'esperimento fu condotto, per ragioni di sicurezza, da un apparato di computer edificato su una luna di Giove a basso contenuto di sostanze gassose. Fu coordinato in modo che la volontà dell'uomo non potesse deviarne le conseguenze da lontano, e fu chiuso alle indagini esterne per dieci lunghi anni. 
Non c'erano altri modi per evitare interferenze che potessero modificare il risultato dell'introduzione della spiritualità nel microchip centrale, che batteva i suoi ritmi liberi nel petto dei nuovi e futuri servitori del Bene. 

Allo scoccare dell'ultimo giorno di sperimentazione una delegazione di Prelati e Saggi allunò sul satellite di Giove, e un meraviglioso miracolo spalancò i loro occhi assonnati dal dubbio: sulla collina più alta, che dominava la cittadella meccanica, si ergevano tre croci in titanio, che offrivano al buio cosmico tre luccicanti robot, avvitati a un pianto che l'esistenza aveva, fino a quel momento, risparmiato loro.

venerdì 19 agosto 2011

Sindrome


Un aggregato orribile, quale io sono, ha scoperto, oggi, che ciò a cui dava più importanza è solo il risultato di un assemblaggio di elementi, che si distinguono per il loro alto grado di instabilità individuale, con ginocchia che tremano al cospetto di un universo la cui caratteristica principale è racchiusa in un'inafferrabile certezza centrale, priva di peso e misura, che abbraccia una moltitudine indefinita di incertezze, gravide di dolore. Neppure il fatto che la somma di tutte queste perfezioni azzoppate corrisponda a un risultato maggiore di questa somma, riassumibile nella stabilità armonica totale, riesce a consolare la disperazione di essere nella condizione di infime realtà individuali, composte da pezzi uniti solo perché combattono realtà a loro esterne.
Sono un corpo fatto di penosa materia, che conserverebbe il proprio gelo cosmico se non fosse riscaldato da un'anima, psichicamente disadattata, ma motivata da uno spirito, anche se indifferente e centrale, che critica in un amorevole silenzio.
La perfezione vera non è un merito, ma un dato di fatto che non è di questo mondo, e chi, come me, arranca alla ricerca di un equilibrio che sia decente e dignitoso, non può fare altro che piegarsi a eventi che sembrano accadere per allontanargli l'anelato riposo.
Sono stanco, ma ora non posso distrarmi, devo mutare la forma dei miei recettori in modo che sorprendano il nuovo vaccino per rendere vana la sua azione repressiva. 
La mia mente non sopporterebbe una sconfitta, ed è disposta a odiare con tutta se stessa. 
Il mio spirito si aspetta che io debba combattere per riuscire a diffondere l'infezione di cui sono portatore, ma so che non sorriderà per la mia vittoria anche se, dopotutto, non è per far questo che mi ha fatto nascere?

domenica 17 luglio 2011

Analisi del Non possibile


Non l'avrebbe detto a nessuno, almeno non prima di aver terminato la "Divisione infinitesimale". Nessuno scienziato umano l'aveva mai fatto prima, ma lui non era umano, anche se lo sembrava. L'avere inventato lo strumento che gli consentiva di dividere ogni realtà suscettibile di essere divisa lo esaltava, perché quella era l'unica via che conduceva alla scoperta del mistero del Creato, al raggiungimento dell'esatto momento nel quale la creazione assume la sua prima forma. Si era avventurato in quella ricerca dopo essersi accertato che tutto ciò che è esteso è anche necessariamente divisibile, ma per dividere occorreva disporre di un'energia così sottile da non poter essere divisa a propria volta, non estesa dunque. Altro che atomo o quark, particelle ancora incommensurabilmente grandi rispetto a quello che il suo strumento poteva dividere sezionando. Maneggiare un pensiero così sofisticato come il suo, l'unico in grado di operare il cuore di Dio, non era facile, e la mano gli tremava ancora, ma presto sarebbe arrivato l'infermiere con quella magica pastiglia rosa, e avrebbe potuto riprendere il suo sezionare, seguendo l'ordine maniacale che si era imposto.

Al centro di una Giustizia


Nell'armonia dell'equilibrio cosmico generale, che consente all'universo di esistere insieme al suo enorme carico di disarmonie e ingiustizie particolari, ogni essere si sente al centro di un'ingiustizia, quando è fortunato, e di una moltitudine di ingiustizie quando è sfortunato. La cosa migliore che può capitare a ognuno è quella di riuscire ad accorgersi di essere al centro di una giustizia più che cosmica, che non ha nulla a che fare con la fortuna o la sfortuna.
Una giustizia che, per essere perfetta, deve includere tutte le possibilità di essere ed escludere soltanto la contraddizione alle sue proprie leggi.
Leggi perfette che consentono l'imperfezione e la sua cura.
È per questo che ogni imperfezione sta al centro di una Giustizia.
È sempre per la stessa ragione che è conveniente accorgersene.

Sotto al Mistero


Di fronte al Mistero ogni ipotesi sta sullo stesso piano sul quale tutte le ipotesi devono stare, quello del dubbio. Eppure… eppure anche tra i dubbi è possibile stabilire una gerarchia data dal grado di credibilità che ogni dubbio è indotto a ostentare di sé. Naturalmente nel regno dove il dubitare è indice di regalità il fine è rappresentato dalla Certezza priva di dubbi, ed è un po' come dire che il fine di un forno è il cibo crudo.
La logica è l'arma con la quale si minaccia la riservatezza nella quale il Mistero si nasconde ma, purtroppo per l'arma, l'unico proiettile del calibro adatto per convincere la verità ad arrendersi è costruito dalla stessa fabbrica che ha forgiato i princìpi universali che consentono alla Verità di esistere. Senza la perfetta conoscenza dei princìpi universali ai quali l'esistenza è sottomessa ogni verità resterà molteplice e parziale, mutilata della propria, inesprimibile, essenza centrale.
Il Mistero è assoluto, infinito ed eterno, e quando la Certezza priva del dubbio sarà raggiunta da un essere individuale, essa avrà la stessa natura del Mistero, altrettanto assoluta infinita ed eterna, e non potrà esaurirLo, né potrà essere comunicata ad altri individui che non la conoscano già.

domenica 10 luglio 2011

Libertà difettose


Avrebbe potuto essere la scoperta più sensazionale di tutti i tempi, non fosse stato per quel piccolo difetto che ne avrebbe dovuto sconsigliare l'uso su scala planetaria.
D'altronde la specie umana, che conosceva bene le problematiche legate alla fuga dalla realtà, quotidiana e oggettiva, non avrebbe potuto prevedere, prima di averle sperimentate, quelle riferite alla possibilità contraria a quella: la trasformazione della realtà soggettiva e interiorizzata, quella del sogno, in realtà oggettiva e condivisa da tutti. Dopo che, per un puro accidente, fu intravista la possibilità che ci potesse essere un canale aperto di comunicazione tra i due modi di essere dell'incoscienza umana, si scatenò la ricerca scientifica per individuare il punto di contatto tra le due realtà, così lontane tra loro, che avrebbe consentito di assegnare una solidità dimensionale al sognare, in modo da trasformarlo in un più alto grado di verità, prossimo al Centro di ogni cosa, oggettivamente esperibile nei modi riservati allo stato di veglia.
All'inizio della ricerca gli scienziati cercarono di individuare le nano-particelle di antimateria ritenute essere la causa immediata della materia. Si ipotizzò che l'esistenza fosse, prima di divenire la realtà che conosciamo, contenuta in principio, dunque al livello di pura potenzialità, in ciò che si era convenuto chiamare "Non esistenza", per l'impossibilità di nominare una Realtà di principio non ancora affermata nel regno della quantità. La conseguenza fu l'ipotizzare che, per trasposizione analogica, alla materia dovesse corrispondere una sorta di antimateria che la contenesse in forma pre-esplosiva. Questo ramo della ricerca fu abbandonato quando divenne evidente, a causa della raffinatezza dei nuovi strumenti di misura, che ogni elemento esteso, solo per il fatto di essere esteso, deve essere divisibile indefinitamente, e le parti ottenute da questa divisione avrebbero mantenuta integra la propria positività, impossibilitata a trasformarsi in negatività. Questo fallimento, sul piano squisitamente materiale, indusse la scienza a cambiare il livello di realtà sul quale indagare.
Il movimento successivo riguardò l'uso di alcune droghe psichedeliche, che avevano la caratteristica di trasformare la quotidianità in sogni, ma l'avanzamento previsto fu interrotto perché lo spostamento di coscienza si dimostrò insensibile a un'inversione parametrica degli effetti in questo modo ottenuti.
Infine, esaurite le speranze di concretizzare l'affascinante teoria del passaggio di stato che avrebbe consentito di sognare le stelle per renderle più vicine, ci si diresse verso quella, ritenuta da molti, essere l'ultima spiaggia percorribile dal fantasticare umano, quella della ricerca interiorizzata.
Furono rastrellati gli individui mostratisi in grado di vincere le leggi fisiche gravitazionali, e li si sottopose a una forsennata sperimentazione. Nei laboratori statali dell'intero pianeta si poterono osservare esseri che levitavano nell'aere come non avessero avuto peso.
Tra loro c'erano maestri spirituali seguaci delle più svariate dottrine, così fantasiose e anti-scientifiche da far sperare in un possibile successo della materializzazione del sognare.
Tra costoro il potere di spostarsi nello spazio, attraverso il dono dell'ubiquità, era spesso presente e fu studiato a fondo, fino a carpirne il segreto.
Purtroppo, insieme a questo segreto, si scoprì anche che l'ubiquità aveva insopprimibili contro-indicazioni date dalla qualità del sognare che la consentiva.
Il difettuccio che ha condotto la presente umanità alla rovina è contenuto nell'altra faccia del sognare, quella che sopprime la libertà costretta dalle leggi armoniche dell'universo, per sostituirla con un'altra libertà, certamente priva di costrizioni e leggi ordinatrici, ma che ha consegnato la vera libertà alla volontà del male.

venerdì 8 luglio 2011

Umani


Si nasce e si muore; in mezzo ci siamo noi, misteriosamente chiamati "umani", non si sa da chi, ma è forte il sospetto che siamo stati noi stessi a definirci in questo modo che trabocca di tenera auto-comprensione, nel senso del dover essere capiti, anche da noi stessi, quando non si fa il bene del prossimo.
Il dubitare non si ferma qui, perché coinvolge molte altre questioni che ci riguardano, sia nella visuale generale data dall'essere una specie ipocrita, che nel particolare dell'essere individui piuttosto stronzi. Da questo realistico quadretto dobbiamo salvare i rari individui che umani non sono più, a causa del loro aver rinunciato a esserlo. Sono, queste ultime, delle personalità santificate non dagli umani, ma dalle scelte fatte, orientate al sacrificio di sé.
Gli umani non hanno mai mostrato di apprezzare il termine "sacrificio", un po' a causa della sua radice latina - sacer - che esprime il senso del "Sacro" trascendentale che oltrepassa ogni limite, e un altro poco per la desinenza che ha questa parola, e che è sempre latina, la quale indica la necessità del darsi da fare - facere - per rendere sacro ciò che ancora non lo è: l'uomo.
L'essere umano, obbedendo a una legge che vuole siano tutte le cose uniche scomponibili in due aspetti, tra loro opposti e complementari, è considerabile nella centralità che caratterizza la sua universalità potenziale, così come nella sua superficialità, che è espressione esteriore, diversificata e molteplice, del centro unico uguale per tutti i diversi.
L'indefinibile centralità dell'essere è chiamata "sé" da tutte le tradizioni del pianeta, mentre la superficialità è definita "io" in quanto costituisce l'insieme di tutte le caratteristiche, individuali e uniche, che ognuno porta con sé, quasi sempre facendo in modo che riescano a sopprimere il proprio sé immortale.
Questa convivenza tra il sé e l'io, il primo essendo aspetto immobile e giudicante del secondo, piuttosto mobile e battagliero dà, come risultante, una o più crisi di coscienza.
Naturalmente questa centralità spirituale è, in sé, perfetta immagine dello Spirito trascendente che è Centro e causa di tutta la realtà che conosciamo, insieme all'altra Realtà, ancora misteriosa, e pure di quella che non può essere conosciuta. Purtroppo ognuno di noi è anche un io esteriore, e questo implica che non ci si possa accontentare di essere centralmente perfetti solo in potenza, ma occorrerà fare di tutto - facere - per attuare il sacro - sacer - che è in ognuno di noi.
Il principale senso che esprime il termine "umano", senso che è anche direzione delle scelte da compiere, è riferito in special modo alla debolezza caratterizzante la nostra specie, disposta a sacrificare soltanto ciò che è esteriore all' "io", mentre dovrebbe essere il contrario. 
Se fosse il contrario sarebbe una forza, e la parola umanità esprimerebbe una conquista al posto di significare l'avvenuta perdita della dignità interiore.

giovedì 7 luglio 2011

Il Saggio


Documento estratto da un antico ritrovamento avvenuto in una grotta del mare che, prima di averlo letto, era ancora vivo... 

Prologo: Questo antico documento è essenziale per riuscire a penetrare fino in fondo il senso nascosto della Bibbia, quando letta tra le righe della sua misteriosa, quanto affascinante, conclusione: l'Armageddon...

Il Saggio


— Okkey, ragazzi, pronti… via! — era il solito saggio di fine anno che partiva, quello della scuola per co-creatori celesti dell’Olimpo. Uno spettacolo di dubbio gusto del quale nessuno si era mai chiesto la provenienza.

I partecipanti, tre in tutto, si fiondarono sul materiale a disposizione, cercando di accaparrarsi quello migliore.

Una creatrice, l’unica femmina della scuola, prese un rotolo di stoffa pregiata e un paio di forbici luccicanti, l’altro una pannocchia di granturco e l’ultimo un panetto d’argilla.

Non sarebbe stato facile, per la giuria, decidere chi sarebbe stato il vincitore, ma fu subito chiaro a tutti che l'ultimo arrivato con quel pezzo d’argilla avrebbe fatto una cagata.

martedì 5 luglio 2011

Esseri di luce


L'impossibilità che ha ogni sistema di potersi considerare chiuso, e quindi protetto dalla possibile intrusione di altri e troppo diversi sistemi, è la ragione che ha condannato questo nostro mondo.
L'immensità di un universo del quale non si riesce a immaginare i confini è tale da comprendere, in sé, nature estremamente lontane tra loro, che consentono l'esistenza di specie così diverse da non essere compatibili.
Il nostro è un pianeta magnifico, culla della creatività con la quale il mistero della vita ha superato il buio gelido dell'avversione alla luce.
Luce non abbastanza veloce da riuscire ad arrivare prima che la sua fonte sia stata spenta dal tempo.
Luce che sopravvive come simulacro di stelle morte che non brilleranno più, e che continua la sua inutile corsa, portatrice di illusione.
Da una di queste stelle morte sono arrivati loro.
Quando la nostra specie fu contattata da questi alieni, si chiese soltanto quanto avrebbe potuto perdere o guadagnare dall'incontrarli.

È possibile che una tigre cacci sulla stessa terra che nasconde un topo, perché l'istinto di sopravvivenza non ha colpe; allo stesso modo è normale che un'eccezione conviva col suo contrario per contrastare una regola della quale nega la perfezione, ma in un inferno il paradiso non può entrare nemmeno come estrema possibilità.

La specie aliena, decimata prima ancora che posasse il suo cuore sul nostro pianeta era pura generosità, incarnatasi in esseri di luce, di una luce che le nostre armi hanno spento prima che ci potesse abbagliare del suo amore, e adesso sappiamo riconoscere, nello sguardo di ogni nuovo nato nel nostro inferno, lo stesso bagliore che spegneremo di nuovo, prima che riesca a infettare i nostri cuori.


mercoledì 29 giugno 2011

Deceduto ieri


Sono deceduto ieri sera, improvvisamente e per una ragione che non conosco, e non so neppure dire dove mi trovo.
Non ho contatti con la realtà in cui vivevo, della quale conservo un ricordo nitido. Non sono qualcuno che vaga, perché non sto in un luogo diverso da quello in cui mi mettono i ricordi. Non sono in grado di riconoscere uno scorrere temporale, perché sono consapevole dell'istante che mi sta addosso, senza avere spazio per misurare il suo scorrere. So che sono, e ho la sensazione che sia impossibile cessare di essere, ma non conosco ancora la distanza che separa l'essere dall'esistere.
Ho paura, perché quello che conosco appartiene a un passato che tornerà solo vestito delle sue imprevedibili conseguenze.
Che cosa strana l'aver creduto che la morte debba svelare verità che non le appartengono.
La mia morte è andata via di fretta, portando con sé anche il segno del suo artiglio, e mi ha abbandonato al futuro che è qui, immobile come uno spavento.
I miei pensieri sembrano essere una serratura che, per essere aperta, deve essere ruotata da una chiave che non ha mai conosciuto.
Pare che la libertà, quando è stata persa, abbia bisogno di una prigione da distruggere, e ho timore di essere io quella prigione.

giovedì 23 giugno 2011

Il pizzino degli scrittori


A me piace scrivere. So da me, contrariamente a un'opinione diffusissima, che il farlo nulla aggiunge, come nulla toglie, al vivere. 
Semplicemente aiuta a trascorrere del tempo che, altrimenti, sarebbe tedioso quando non pericoloso. 
A causa di un incidente, accadutomi meno di quattro anni addietro sono stato costretto, per quattro lunghi mesi, in una posizione che sarebbe stata più adatta al sesso estremo; sarà stato per questo che ho cominciato a scrivere, nel vano tentativo di deprimere questa orribile idea. 
Certo è che lo scrivere mi diverte, dando modo al lato peculiare del mio carattere - la presa per il culo - di distinguersi nella bolgia degli altri miei difetti gravi.
È stata proprio questa caratteristica che mi ha indotto a frequentare siti e forum dedicati alla scrittura e, più in generale, alla pubblicazione di racconti e poesie.
In questi luoghi, che definire virtuali sarebbe una sciocchezza, si incontra gente di tutti i generi, un vero bestiario, spesso variegato da inclinazioni caratteriali da puro incubo tamarro.
Se ci si volesse fare un'idea di questa coltre nera dell'anima occorrerebbe immaginarsi cosa potrebbe accadere, in una congrega di mafiosi se, di colpo, a tutti venisse in mente di prendere carta e penna per mettersi a scrivere pizzini.
Nei siti di scrittura il "pizzino" è lo stile a cupola che accomuna tutti coloro che si sono fermati ai modi d'espressione scritta insegnati nella seconda classe delle scuole elementari, nel migliore dei casi si arriva al primo trimestre della terza.
Naturalmente appena questi "scrittori" si trovano davanti agli occhi un periodo scritto che non si rifaccia alla lista della spesa, e che ecceda le sei parole consecutive, senza un prezzo riportato subito a lato, stralunano gli occhi al cielo come quando sospettano di essere stati intercettati dalla finanza che, per loro, corrisponde a un'aggregazione mafiosa, antagonista alla loro anche se meno organizzata.
Apriti cielo se in questa fila, interminabile per loro, di parole, si nascondesse pure un concetto compiuto e intelligente, da essere confinato subito tra le realtà indefinibili. 
Quando a degli "scrittori", come questi appena descritti, non è chiara una situazione… nel salotto da loro occupato si scatena l'inferno, e tutti si lanciano contro l'intelligenza intrusa, sentendosi dei leoni che inseguono una gazzella zoppa. 
Prende così avvio la sommossa degli appartenenti a un popolo, virtualmente privo di virtù ma che si crede favorito da doti celesti, che ha come obiettivo la distruzione di quello che, ai loro occhi, appare essere il pericolo maggiore per una sopravvivenza letteraria comune, e fors'anche per un attualmente ancora lontano, ma comunque immaginifico destino editoriale, magari pressato in un'antologia dal titolo: "La mafia non esiste, e se esistesse noi non sapremmo riconoscerla".
La prima cosa che questi "scrittori" mettono in atto è un aggregarsi comune sotto la stessa identica opinione, così riassumibile: l'estraneo è un infiltrato venuto qui per mostrare a tutti che lo scrivere libero ha, come indispensabile radice, il rigore a dei princìpi di correttezza intellettuale. Princìpi che sono il prolungamento di altri princìpi, ancora più importanti ed elevati, ai quali tutto l'esistente deve la sua ragione essenziale d'essere.
Nessuno tra gli scrittori mafiosi che scrivono di sé, descrivendo in terza persona le proprie eccezionali qualità intellettuali, si domanda cosa siano dei princìpi, tanto più se questi sono di un ordine universale, dunque applicabili, nel loro legiferare, a tutto ciò che esiste. 
Non hanno bisogno di farlo, perché loro danno al termine "principio" esclusivamente il significato opposto che questa parola dovrebbe avere: non la legge d'amore attraverso la quale l'esistenza è stata donata, ma quella dell'odio per cui sarà tolta.

martedì 21 giugno 2011

Sulla Poesia


Naturalmente non è consigliabile stabilire regole che possano recintare ciò che dev'essere libera, per imposizione data dalla sua stessa natura. La poesia costituisce esempio di questa necessità di libertà, sulla quale è centrata la sua ragione d'essere essenziale. Sarebbe impensabile, per la stessa ragione, definire esattamente cosa sia o non sia la poesia, perché ogni definizione escluderebbe un aspetto senza il quale la libertà di essere della poesia sarebbe negata.
Tutto questo non impedisce, però, di fare considerazioni sui diversi aspetti dei quali, la libertà poetica, si avvale per esprimere le proprie intenzioni.
Ogni poesia ha, in sé, più o meno velati, uno o più significati che stabiliscono il senso, che è direzione interiore del poetare. A questo senso è associata una musicalità, composta dai suoni che accompagnano le parole nel modo di essere accostate tra loro; parole che racchiudono, e nel contempo liberano, il significato da mostrare. Il risultato finale di una poesia sarà dato dall'incrociarsi di queste caratteristiche, dunque dall'accordarsi finale del senso e della musicalità che le distingue, dalla mancanza di senso associata all'assenza di musicalità, dal significato privo di armonia espressiva o dalla sola presenza di sterile esteriorità armonica. La completezza di un significare valori, attraverso la magia della musicalità che costituisce le ali con cui questi valori s'innalzeranno al cielo, o precipiteranno negli inferi, nessuno può definirla definitivamente, perché la poesia non è una chiave che apre al mistero dell'esistenza, ma è uno dei modi in cui il Mistero si concede non per essere svelato.
La poesia è paziente, e si lascia creare senza lamentarsene, perché per essa si lamenteranno i versi con i quali si è voluto storpiarne il fine, quando il suo fine naturale sarà offeso. Il fine di ogni libertà, condizionata dalle parole, è nella Libertà di sommare le parole per esprimere significati che nessuna singola parola può riuscire a trattenere dentro di sé. Libertà che, per essere compresa e utilizzata, deve poter essere anche vista e vissuta dentro di sé, nella dignità data dal sapersi sacrificare la quale, sola, è in grado di contenerla.

giovedì 16 giugno 2011

Auguri mister Brunetta...

Lo scrivere... oggi...


Tutti, bene o male e prima o dopo… scrivono qualcosa. Scrivere è uno dei modi che il bisogno di condividere comunicando ha dovuto scegliere, da quando il parlare ha cessato di essere la via eletta attraverso la quale gli umani si coccolano o si sgozzano. 
Lo scrivere presenta indubbi vantaggi sulla comunicazione verbale, primo fra tutti il non potersi guardare negli occhi. 
Non è difficile capire che quando gli sguardi s'incrociano può accadere di tutto, a esempio che la scrittura possa cedere posto ad altro, e non è raro che questo altro siano feroci accapigliamenti o, più occasionalmente, accoppiamenti animaleschi. 
La relazione che utilizza i suoni, ammalianti o febbricitanti, del dialogo verbale è messa a rischio da un'emotività che richiede maturità raffinata per non finire in zuffa, mentre se le proprie fisse sono stati fissate da inchiostro, sarà più facile controllare gli impulsi sanguinari che seguiranno. Le guerre campali dei tempi che furono lasciarono sul terreno migliaia di cadaveri dalla lingua troppo lunga. 
Oggi, invece, alla fiera del libro al massimo ci sono due o tre omicidi, e sono sempre gli editori che ci lasciano le penne, massacrati in qualche bugigattolo dietro le quinte di un palcoscenico. 
È proprio questo maledetto palcoscenico il centro dei problemi più gravi che chi scrive deve saper eludere.
Dando per scontato che lo scrivere sia molto meno essenziale, come necessità, dell'andare a fare il proprio bisogno al cesso, è giusto e doveroso ricordare che i nostri antenati scrivevano poche cose importanti, anche se queste sono state assai più numerose di quelle che scriviamo noi oggi. 
Un esempio è costituito dalle tavole dei dieci comandamenti, scritte in un'epoca in cui tutto era affidato al sibilare delle parole. 
Ecco che, insieme a quelle tavole, in pietra a sottolineare il peso di quelle prescrizioni religiose, rivelate a genti che ancora picchiavano i propri genitori per rovistare nelle loro povere tasche disadorne, siamo costretti a rammentare che il Padreterno ha scritto quella unica cosa affibbiandone la responsabilità a un altro, Mosè, che da quel momento in poi non ebbe più rapporti sessuali di qualsiasi natura questi potessero essere, lasciando questo serio problema in eredità a tutti i suoi successori, scrittori del futuro.
E qui si presenta da sé la ragione più importante per la quale una moltitudine di individui si arrischia a scrivere di emozioni e considerazioni ipotetiche, più raramente di voglie appassionate.
Dietro a scenari inverosimilmente arzigogolati si cela l'ansia di fare nuove conoscenze da portarsi a letto o, in alternativa, da sdraiare sul sedile di un'utilitaria.
A questo scopo non si hanno remore persino a fare della poesia sdolcinata e melensa mentre, allo stesso inconfessabile scopo, ci si butta addirittura a scrivere delle inverosimili, quanto assurde, cagate prive di ogni dignità poetica, che riscuotono pure un incredibile successone tra un pubblico di imbecilli volonterosi; successo primordiale come è l'ansia repressa che lo ha motivato.
Sono balle per oscurare la verità quelle che affermano essere, la scrittura, il modo più pregiato di fare della cultura. 
Balle che sarebbero capaci di dare un attestato di merito allo sforzo che ha voluto la più grande e diffusa biblioteca di tutti i tempi, più sofisticata, in termini di indagini interiori portate a termine sulla natura umana e divina, di quella alessandrina: la catena di negozi porno che fa parlare male di noi su tutti i pianeti che compongono la Via Lattea, per il momento non ancora siliconata.
Il mio numero di telefono, comprensivo di tariffario, lo trovate sotto le mie note personali. Telefonare per appuntamenti solo quando mia moglie è fuori a fare la spesa...

martedì 14 giugno 2011

La natura della verità


La verità è tanto paziente quanto implacabile, e a nulla aiutano i soldi per comprarle vesti pregiate o scadenti, perché la verità ama la nudità.
La verità è analoga alla nascita di un uomo, ha freddo come lui e piange, quando è sottomessa all'essere riconosciuta dai fatti che le accadono intorno.
È abbigliata a causa della sua sfacciataggine priva di morale, è protetta con fronzoli colorati, è accudita in modo che non sia accessibile a tutti, è immobilizzata nella rigidità che non vorrebbe vederla crescere.
È costretta dalle convenzioni considerate utili alla sopravvivenza, senza che ci si accorga che nulla sopravvive più a lungo di lei.
È circondata da carcerieri crudeli che la offendono senza conoscerne le intenzioni.
La verità non ha intenzioni, a parte quella di non portare maschere.
La verità non prova pietà, tranne quando aspetta il momento giusto per rivelarsi.
La verità non ha bisogno di conoscersi, tranne quando non vede se stessa negli occhi di tutti.
La verità non ama parlare di sé, preferisce lo facciano i fatti.

lunedì 13 giugno 2011

L'ultima Centrale



Era l'ultima centrale nucleare rimasta attiva sul pianeta, ultima determinata volontà a ricordare quanto fosse conveniente poter disporre ancora di una fonte, quasi perenne, di sostentamento energetico. 
La necessità di approvvigionare di corrente il grande schermo divulgatore, posto al centro della piazza della rivoluzione industriale, aveva trionfato sulle ormai esigue proteste di chi aveva ritenuto doveroso l'affidamento della propria sofferenza ai capricci di una natura perfida e insidiosa. 
Il gigantesco spettacolo elettronico relegava albe e tramonti al ruolo di tiepidi sfondi, inadeguati a celebrare la grandiosità del genio umano che esibiva i propri successi, facendoli scorrere all'interno di una cornice archeometrica, composta di leghe di alluminuri intermetallici di titanio che ne esaltavano la veridicità. 
Una voce dal tono imperioso, morbidamente modulata sulle aspettative di un futuro radioso, che si sarebbe scolpito da sé, descriveva con enfasi religiosa gli obiettivi già raggiunti, accarezzando il piacere dell'essere riusciti a snaturare la paura dell'ignoto che aveva attanagliato i selvaggi di un tempo dimenticato che avevano tremato, guardando stelle mai state così vicine a quel tremore. 
Era stato deciso di non soffocare il brusio delle sfere celesti rinunciando a decibel trionfanti, prodotti da enormi amplificatori da far confluire in casse armoniche, esose in termini di approvvigionamento energetico, per lasciare al cielo la possibilità di scusarsi, attraverso i suoi lampi assordanti, di aver ostacolato il raggiungimento della perfezione di una specie, quella umana, dalla quale era già stato perdonato. 
Anche la ciclicità degli eventi commemorati era stata prefigurata con cura, in modo che non si notasse il momento di congiunzione del loop ripetitivo nel quale gli eventi scorrevano davanti all'orizzonte stupito. 
Nulla era stato lasciato al caso, nella certezza che ci sarebbe stato un probabile futuro in cui esseri alieni avrebbero goduto, gioendo con le nostre ombre impresse sulle rocce fuse, nel ricordo di un umanità che non avrebbero mai incontrato.

domenica 12 giugno 2011

In un istante interminabile


Quanto tempo sia trascorso dall'inizio del tempo non lo si può sapere, come non si può conoscere quanto tempo manchi ancora alla fine della durata, ma lo spazio nel quale quest'ultima misura se stessa non terminerà nello stesso, congelato, istante. 
In un attimo l'attimo immobile cesserà di pulsare nella lagna della vita e di far seguire, a note sempre diverse, altre diversità. 
Lo spazio arresterà la sua corsa nel tempo e, per un interminabile momento, tutto l'esistente si preparerà a intonare l'antica voce del suo nuovo lamento.
Ogni ciclo vitale è frutto di altri cicli più piccoli, determinati dall'essenza della stessa legge che muove il cielo.
In ogni rotazione si esprime un'armonia cosmica che può trasformarsi nel proprio contrario senza, in questo capovolgersi, riuscire a modificare l'armonia generale del tutto.
Insieme a questo vortice io non sono riuscito a danzare; il troppo peso che porto in me lo ha impedito, e ora sento l'inerzia arrivare, con la stessa tristezza amorevole nella quale ogni tramonto prepara il ciclo che verrà.
Non conosco il futuro che sta oltre la mia morte, come non ricordo il passato prima della mia nascita, ma so di dover appoggiare i miei piedi su quelli di un destino sconosciuto che mi dice di esserci in ogni inciampare della mia libertà.

mercoledì 8 giugno 2011

Lo strano sogno di Vidharr


L'universo si sa, è uno, a immagine del Centro che l'ha generato, e tutto comprende non potendo escludere che l'impossibile a realizzarsi in nessuno dei suoi indefiniti piani di realtà, quello dei sogni compreso.
— Lì si realizzano le cose più strambe— 
pensò Vidharr, guardandosi attorno stralunato, nell'impossibilità di cogliere il senso di quello che vedeva. I nani, escluse rare eccezioni, non dormono molto e si danno un gran daffare a costruire castelli e strade in dura pietra, scavare miniere dove estrarre metalli e pietre magiche e corteggiare nane pericolose, con le quali tentare invano di esporsi in vanterie che le nane mortificano senza alcuna pietà, maneggiando una cruda superiorità intellettuale che è l'unica arma che un nano ha problemi a schivare.
 Questa loro natura non li spinge, di solito, a dare eccessiva importanza al corpo dei sogni evanescenti che insidiano la loro connaturata solidità.
 Per la stessa ragione i nani poco apprezzano tutto quello che mette in precario equilibrio convinzioni e conoscenze, le quali si allungano misteriosamente nel loro epico passato, allo stesso modo in cui l'intreccio di grotte, scavate dagli antenati, si perde sprofondando verso il centro del pianeta, infuocato come la fucina che arde nei loro cuori.
 Ma questa volta era uno strano sognare, quello che accompagnava le solide convinzioni di Vidharr verso il pericolo di sgretolarsi, e i responsabili dovevano essere stati i funghi raccolti nella grotta del labirinto oscuro.
 Gli tornavano alla mente antichi ricordi di frasi sussurrate alle sue orecchie appuntite dalla nonna, che gli ordinava di calpestare quei frutti del diavolo e di non guardarli neppure.
 Lui, entrato nella grotta del labirinto oscuro inseguendo un coniglio selvatico, si era perso e aveva vagato per un tempo interminabile tra quei cunicoli, ciechi come la sua anima che aveva dovuto azzittire per riempirsi lo stomaco. Già, lo stomaco. La sua nonnina gli aveva insegnato a diffidare anche di quello, assicurandogli che era l'antro del demonio e che aveva due uscite: una davanti e l'altra dietro, ma tutte e due conducevano all'inferno.
 Come non darle ragione ora che nei suoi occhi quelle fiamme roteavano insopportabili, pulsandogli nel petto come a volergli urlare che il mondo stava lì, davanti alla sua intelligenza, ma non era come lui l'avrebbe voluto, era molto più bello.
 Aveva dovuto mangiarli quei maledetti funghi, per non morire di fame, e non era più sicuro che ne fosse valsa la pena. Adesso che il mondo parlava non attraverso la solita voce che lo aveva tormentato fino a quel giorno, ma per immagini nude, veloci e crudeli come sa essere la verità quando esplode. Di fronte al terremoto di emozioni che gli faceva tremare quel suo cuore di nano, generoso e temerario, che segnava il centro del suo esserci, lui era immobile perché non c'erano frecce da schivare né lance da spezzare. C'era solo un nano e la sua dignità, offesa dal nuovo scorrere degli eventi che l'avevano ricondotto fuori da quel buio, ricomponendo il labirinto della caverna nell'altro labirinto, quello interiore e che, stando fuori dalle sue previsioni, aveva una sola uscita che sfociava nel destare il suo spirito.
 Il bosco era più gigantesco di quando l'aveva lasciato per entrare nel labirinto oscuro, e vivo come non lo aveva mai visto prima.
I rami si muovevano sinuosi e sembravano salutare la sua diversa coscienza che, confusa da tanta bellezza, gioiva come se avesse avuto le ali.
 I piedi si muovevano leggeri tra i rami secchi, e le foglie erano percorse da tutte le sfumature che il giallo conosce. Non un inciampo sul sentiero non tracciato dagli uomini, ma solo da un Mistero che si divertiva a nascondersi, mostrando i propri fantasmi in una vorticosa danza di immagini che inebriavano di vertigine.
Il suo turbinio di pensieri aveva la forma delle nuvole che si rincorrono nel vento, assumendo forme che non si possono fissare, senza meravigliarsi della sfrenata fantasia di un cielo che non era mai stato vuoto.
 Arrivò al villaggio a sera inoltrata, stanco e con gli occhi cerchiati da cornici nelle quali ancora correva l'energia dello stupore.
I bimbi gli corsero incontro in cerca di bacche dolci, ma si fermarono quando sentirono il tremore nelle sue mani e lo videro stanco e sfatto, come un letto dove si è trascorsa la notte a piangere.
La notizia del suo arrivo, dopo una settimana di assenza, si diffuse veloce quasi quanto la contentezza di saperlo vivo, e Ghedra non ebbe nemmeno la forza di corrergli incontro perché quella forza doveva servirle per frenare le lacrime.

— Fannullone di un marito incosciente!— Vidharr sentì tuonare nella testa, e pensò che mai Ghedra si era così avvicinata alla sua realtà interiore.
 L'effetto dei funghi era ancora nel pieno dello sfavillio di meraviglia e Vidharr sapeva che il suo nuovo vedere gli avrebbe rivelato un lato del suo villaggio che non avrebbe mai voluto conoscere.
 Entrò nella sua casa e gli sembrò troppo piccola per un cuore che era stato una cosa sola con la foresta e il cielo, nella consapevolezza di avere un unico Padre, più piccolo anche di un nano, ma più grande dell'universo intero.

Vidharr aveva un corpo temprato meglio di una spada, e sodo come quello di un sasso quando è privo di venature, ma il suo animo era gentile come una mammola appena uscita dalla terra per guardare la primavera, e l'effetto dei funghi lo stava scombussolando più dell'accarezzare una piccola pietra magica.
 Incapace di stare fermo, in quella sua casa che teneva fuori il mondo, decise di uscire e di sedersi sulla pietra tonda che stava al confine esterno del villaggio. Da lì avrebbe potuto guardare, senza essere disturbato, la fantasia del Padre che pennellava la realtà senza tralasciare un solo colore. I tetti di paglia che punteggiavano il villaggio, come i bottoni bianchi decorano un'amanita muscaria, sembravano prendere per i capelli le pareti che li sostenevano, e tutto aveva l'aspetto di stare a gambe all'aria. Nulla scombussola un nano più del ribaltamento delle proprie convinzioni. A pensarci bene era così anche per i gambalunga che, come accadeva per i nani, erano capaci di urtare l'evidenza, spintonandola, pur di appropriarsi della ragione.
 L'aria che ondeggiava divertita attorno ai suoi occhi lo convinse che le allucinazioni hanno un proprio spessore, che assomiglia a quello dei sogni, e che ti può far ridere nel sonno, oppure urlare di terrore.
 Ben presto, a cominciare dai bambini, una moltitudine di nani e nane gli si raccolse vicino, accovacciandosi attorno silenziosa, nell’aspettativa di una rivelazione che uscisse da quegli occhi i quali, diventati più neri e luminosi, mostravano di poter scavare una più profonda galleria dentro ai segreti che custodivano quella che era, per tutti, una realtà che mostrava la propria amorevolezza raramente, e solo alla chiusura del sipario.
 Vidharr, che avrebbe desiderato stare solo e che provava vergogna in quel sentirsi nudo davanti a un mondo che lo incitava, prese a guardarli uno per uno, alla luce delle vampate di fiamma fredda che illuminava quei volti tondi, nei quali erano incastonati occhi che volevano sapere cosa può nascere al di fuori del consueto.
Lui li percepiva come fossero tutti suoi figli, nati da Ghedra, la sua amata moglie, tosta, necessaria e fluida come è la pietra quando affila le lame.
 Non osava pensare cosa lui avrebbe potuto essere senza di lei la quale, in disparte per non forzarlo troppo, quella sera pareva essere dentro al suo cuore, e forse da lì non sarebbe mai uscita.

Allo stesso modo dell'esistenza, che nasce senza chiedere permessi solo perché può, la voce di Vidharr prese a modulare un flebile canto che usciva da quello che pareva essere uno zufolo nella sua gola:

Dolce è la bruma che circonda la sera come fosse profumo di una cosa non vera
Piano si espande come un pianto sommesso rivelando paure che le stanno nel mezzo
Come da storia antica si dimentica presto e ci si riaddormenta attorcigliati al canestro
delle cose volute da incantesimi strani con i cuori induriti come fossero mani
che si allungano a prendere una bruma che sfugge come il cuore di nano che per questo si strugge
    
Le note della nenia, uscita dallo sguardo col quale Vidharr abbracciava il piccolo popolo dei boschi, si dispersero languide senza incontrare resistenze, e molti furono i cuori che le seguirono, almeno tanti quanti erano i luccichii di commozione che riflettevano lo scoppiettare delle fiamme, alzatesi a sfidare il vento che le portava via con sé.
Vidharr non sembrava più lui, e Ghedra fu sorpresa che il suo nano potesse lasciarsi andare ai moti dell’anima, come avrebbe potuto fare solo indietreggiando nel tempo. Ma Ghedra non aveva dubbi che uno come Vidharr, piuttosto di tornare sui suoi passi avrebbe scelto il bivio più pericoloso, e infatti così lui fece.
Si alzò dal sasso battendosi i vestiti, alzando un polverone che fece tossire di risa i nani a lui più vicini; riassettò il fuoco maneggiando i tizzoni rossi con le sue corte dita, che non temevano neppure l’inferno. Poi si sedette a gambe allungate, ché i nani non riescono a incrociarle, e subito Ghedra gli si accovacciò dietro la schiena, per sentirne di nuovo il calore e aiutarlo a star comodo.
— Raccontaci cosa è accaduto nella caverna dell’oscuro labirinto, che ti ha spalancato le pupille da farle sembrare onice raro—
L’onice, per i nani come per i gambalunga, era una pietra dura e nera, e ricordava il cielo senza sole delle grotte scure, simboleggiando il faticoso cammino che un essere percorre dentro di sé.
Vidharr parve solcare con la memoria luoghi lontani, e la sua voce si mosse improvvisa, insieme al brillio col quale il Mistero si nascondeva nei suoi occhi
— Avrei dovuto capire subito che quel coniglio non era quello che sembrava essere— iniziò guardingo
— Correva troppo piano, come se volesse farsi prendere— continuò
— Mi stava a un palmo di distanza e non riuscivo ad afferrargli la coda — Quando mi tuffai, sicuro di prenderlo, mi ritrovai al buio e capii che quello era il destino di chi, interessato solo a cacciare, non si accorge di essere anche una preda—
Dalla platea un diffuso mormorio di ansia seguì quelle parole, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che ai nani non piace essere scoperti.
— Ma il coniglio era ancora lì, fermo davanti a me, e mi fissava come a voler sostituire con gli occhi una smorfia di scherno
— Mi lanciai di nuovo e ancora per innumerevoli volte, fino a quando non fu più possibile tornare sui miei tuffi—
— Ohhh!— dissero i bimbi, con l’aria di chi non avrebbe mai più assaggiato una coscia di coniglio.
— Vagai per giorni, maledicendo la mia testa dura, e pian piano mi accorsi di girare in circolo—
— Come in circolo?— chiese un nano anziano, da sotto una lunghissima barba bianca che lo faceva sembrare un Babbo Natale in miniatura, ed era questa la ragione che aveva fatto dimenticare a tutti il suo vero nome
— La caverna dell’oscuro labirinto è circolare?— insistette il piccolo babbo natale
— No— rispose Vidharr
— Ma la magia fa apparire le cose come non sono, oppure come sono veramente e non ce ne siamo mai accorti—
Un brusio di approvazione legò tra loro stati d’animo che ascoltavano sulla punta di piedi troppo grandi, se confrontati al corpo che dovevano portare in giro.
— Quel girovagare per il labirinto somigliava sempre più al non saper dare risposte alla vita, quando lei ti mostra che l’hai sempre osservata dal lato sbagliato—
Un silenzio gelido scese improvviso, perché nessuno lì in mezzo, nemmeno i bimbi, aveva mai pensato di potersi sbagliare
— Noi nani, che grattiamo la schiena al mondo e piantiamo gli alberi che ci proteggeranno domani, non ci chiediamo mai il perché del mondo, noi diamo per scontato che tutto quello che ci circonda è lì, per avere noi in mezzo—
Una voce vicina, proveniente dalla schiena di Vidharr, tentò di correggerlo
— Perché, dove saremmo noi, se non nel mezzo di ciò che ci accade?—
— Mio adorato intrico di peli e muscoli— replicò lui
— Certo che siamo nel mezzo, ma non più di quanto ogni cosa è nel mezzo di tutte le altre cose—
Ghedra si trattenne dal mollargli una gomitata nei reni e non insistette oltre, l’avrebbe stangato più tardi, a casa, ché non le andava che i bambini la potessero vedere
— Dopo, non so dire quanto, cominciai a sperare d’incontrare anche un pericoloso cinghiale, pur di mettere sotto ai denti qualcosa di peloso e diverso da Ghedra— disse, guardandola di sottecchi con la coda dell’occhio, autorizzandola così a suonargliene di santa ragione, una volta che fossero ritornati alla loro casetta
— Ma trovai solo dei piccoli funghi magici…—
I nani, nessuno escluso, potevano mangiare quei funghi solo quando volevano parlare di persona al Padre celeste, e poiché la storia del piccolo popolo racconta che col Padre si parla solo da morti, nessuno li voleva assaggiare
— Ho dovuto farlo, il coniglio prima e il labirinto poi mi ci hanno costretto—
Nessuno gli credette, perché sapevano tutti che Vidharr era un ingordo imbroglione, certamente anche buono, ma si sarebbe mangiato persino le sue unghie se non le avesse avute così corte e nere
— Dopo un’oretta il drago dormiente si prese cura del mio spirito e lo svegliò con un calcio nel sedere—
Ghedra si sentì improvvisamente in sintonia con quel drago anche se, non avendone mai visto uno, non credeva alla loro esistenza, raccontata dalle leggende del popolo dei vecchi nani, sempre ubriachi di frottole
Il folto gruppo che lo attorniava curioso parve sollevarsi dall’erba, e l’erba sembrò anch’essa in un’aspettativa ansiosa
— Terribili vampate mi allargarono gli occhi e vidi nel buio, sia quello che incupiva il labirinto magico che quello che sigillava con un opercolo il mio occhio interno—
Nessuno aveva mai parlato di un occhio interno nei nani, e tutti parvero sul punto di dover sbattere una palpebra che non sapevano dove andare ad aprire
— Sì, nemmeno io avevo mai immaginato di avercelo, eppure i funghi ti fanno guardare il buio illuminando dall’interno il cuore, e i pensieri che vengono fuori da lì diventano, di colpo, più chiari e diversi, capaci persino di considerare il mondo partendo dal suo centro, e non come facciamo noi nani, pesandolo dal di fuori—
Commenti sommessi si accavallarono tra loro come una marea di disapprovazione, e gli sguardi si nascosero dietro sottili fessure, come quelli che caratterizzano i preti dei gambalunga
— Bambini a nanna!— dissero, alzandosi in coro, voci femminili e preoccupate
— Che domani si deve andare nel bosco interno a raccogliere le bacche dolci—
Così, accompagnati in fretta da una nana anziana alle loro capanne, la foresta di pensieri ancora giovani non avrebbe chiuso occhio, cercando di sbirciare tra le canne del muro che li avrebbe divisi dalle parole di Vidharr, il “quasi mago” del labirinto oscuro

— Ma che significa guardare il mondo dall’interno?— chiese una voce che esauriva il pensiero di tutti
— Vuol dire che lo sguardo sul mondo osserva prima le ragioni e dopo gli effetti che provengono da quelle ragioni—
A tutti sembrò un’ovvietà, perché nessuno di loro si sarebbe mai sporto a chiedersi dell’uovo e della gallina, il piccolo popolo le uova e le galline se le mangia, mica ci si fanno sopra i discorsoni
— Così tu, Vidharr, nel labirinto magico hai saputo se viene prima l’uovo o la gallina?—
I nani erano poco inclini ai sofismi impegnativi, in compenso però, sapevano andare al sodo, anche quando non si trattava di uova cotte
— C’è stato un tempo— riprese Vidharr
— Nel quale il tempo non scorreva, ed era come se fosse stato immobile sopra al vortice degli eventi che si preparavano per stringere le pietre nella morsa degli accadimenti futuri—
Non un respiro si fece udire, in quella marea di teste pronte a ridere a crepapelle dietro le balle che sarebbero uscite dalla bocca di Vidharr, che adesso tutti avrebbero volentieri chiamato: “il guerriero rintronato”
— In quel “non tempo” c’erano i semi del mondo, e anche le uova che sarebbero state galline, e oche e uomini e, infine, persino i nani—
Da ancora più in basso di dove stava la ressa un chicchiricchìcchì tentò di avvisare dell’arrivo dell’alba, ma fu interrotto subito, e poco gentilmente, da un calcione che sollevò una manciata di piume che caddero velocemente a terra, svenute come fossero state di piombo
— Sicché noi nani saremmo dello stesso lignaggio dei gambalunga spilungoni che si credono più vicini di noi al cielo?— chiese una nonnina che aveva la voce curva come la sua schiena
— Non ho detto questo, ma solo che tutti proveniamo dalla “Non esistenza”, la quale precede l’esistenza, ed entrambe zampillano dal Mistero scuro che si è fatto chiaro senza che i nostri occhi lo riescano a vedere—…
— Almeno fino a quando i funghi non ne mostreranno l’assenza di forma—
A quel punto nessuno ebbe, per quello scorcio di ormai mattino, più niente da aggiungere, e persino il gallo fu soddisfatto di avere avuto la conferma di ciò che aveva sempre sospettato essere la verità, senza aver mai avuto il coraggio di rivelarla al mondo: viene prima l’uovo della gallina e lui, che era il papà dell’uovo… veniva prima ancora…