mercoledì 30 giugno 2010

La scatola nera

—Meno male che dove non c'è un dove anche il tempo pare immobile, altrimenti questa sala d'attesa mi avrebbe snervato
—Due tizi armati di ali mi hanno detto che mi avrebbero chiamato loro, e che non c'era fretta, almeno finché non avessi capito come aprire la mia scatola nera
—Io che cazzo ne sapevo di quella scatola, e mi dà fastidio che debba essere pure nera
—Quei due stronzi vogliono che io creda sia la mia anima, glielo leggo nelle intenzioni, visto che tengono gli occhi chiusi
—C'è una tristezza qui dentro che pare un mortorio, solo quei due che si baciano tra le lacrime mi ricordano di essere nella sala d'aspetto del reparto "Nuove nascite"
—Avessi almeno un nome, ma mi hanno tolto pure quello quando sono morto, e adesso mi chiamano con un "Hei tu"!
—Ma quante volte devo sentirmi dire che è arrivata la mia ora?
—Mi fanno entrare in un'altra dimensione del cazzo, dopo avermi dato tutti gli elementi per non credere alla sua sussistenza, e mi sbattono di qua e di là senza rispetto alcuno, mentre l'assenza di misericordia traspare da tutti i loro sorrisetti maliziosi
—Se questi sono gli angeli figurarsi come saranno i dèmoni, a meno che non siano proprio loro i dèmoni…
—Fanculo, qui è come nella vita passata
—Nessuno che ti dice una cosa giusta e tutti si scandalizzano che tu non abbia ancora capito cosa ci stiamo a fare in questa bolgia d'imbroglioni stronzi—


—Te lo diciamo noi cosa ti aspetta, e ti aspetta quello che dovrai essere— una fila di essenze dietro a volti irreali, nell'immobilità giudicante, si presenta con l'aria di fare una menata


—Sentite, facciamola breve che mi sono rotto i coglioni di tutta 'sta trafila demente— mi sento dire isterico
—Che cazzo volete da me, visi pallidi?— loro non muovono un ciglio, dandosi l'aria di conoscermi meglio di come mi conosco io, cosa manifestamente priva di valore dal momento che io non mi conosco affatto


—Non mi direte che la giostra si deve pagare dopo aver concluso il giro, vero?— il mio tentativo di scoprire, provocandoli, chi fossero quei visi sparisce nel vuoto in cui tutto è infangato e quelle espressioni, insinuatesi illegalmente nel mio sentire, sembrano cercare qualcosa che non trovano.


—Tu sei una manifestazione di luce, e sei stato dotato di un'intelligenza capace di oggettività, e l'oggettività è verità
—Il non aver applicato al tuo vivere la possibilità di apertura incondizionata verso la trascendenza mostra che, per te, l'intelligenza è un lusso che non ti puoi concedere
—Ora noi valuteremo, per il potere concessoci dal Mistero senza nome, il grado esistenziale e la forma che assumerai nella sfumatura in cui una nuova esistenza aspetta le tue fatiche—


Tra tutte le cose che potevano dire quella che avevano appena sputato al moncone che restava di me era la peggiore. Non potevo credere a quello che avevo capito essere il risultato di una vergognosa trappola, nella quale ero stato tirato in mezzo come un animale che si dovrà rimangiare il proprio vomito


—E come mai nessuno, prima d'ora, mi ha mai detto che ero intelligente?
—Adesso arrivate voi e mi volete togliere quello che non ho mai avuto?
—E questo Mistero, che si tiene nascosto agli occhi del mondo e che manco si mostra adesso, mentre me le manda a dire dai suoi sicari?
—Chi è o cosa è?— stavolta ero furioso davvero, come uno che dopo ore di coda si sente dire di avere sbagliato sportello, dallo stesso impiegato che gli aveva dato l'indicazione sbagliata.
Quelli non avrebbero mosso un muscolo nemmeno se l'avessero avuto.


—Il Mistero non È, perché l'essere sarebbe una costrizione insostenibile per Lui— sibilarono a una sola voce


—Eccoli lì, prima a dirti che sei un essere creato a Sua immagine e somiglianza, poi che a Lui fa schifo l'essere... io non ne posso più di 'ste cagate cosmiche, ridatemi il mio nulla e cancellatemi dal programma di recupero ché tanto è destinato a fallire!— avessi avuto un corpo senza quelle mutilazioni me ne sarei andato seduta stante, da quel ridicolo consesso di inquisitori spirituali.


—Il tuo destino universale è nel Centro che ti aspetta come sempre, e a noi non è concesso togliertelo, ma la strada per raggiungerlo... quella sì che te la possiamo allungare, e anche riempirla di bivi
—In quegli incroci, in mezzo ai quali dovrai scegliere il male minore, non sarai più aiutato dall'intelligenza che tu hai fino a qui insultato, e che il Mistero abbia pietà di te...
—Nascerai come uomo!—


Cosa fosse un uomo ormai sarebbe stata la cosa che mi avrebbe interessato di più, in quella miriade incalcolabile di realtà complesse che galleggiava nel buio cosmico, e mi lasciai accompagnare senza metterla giù dura, come avrò probabilmente fatto tutte le altre volte, chissà dove, quando e in quali forme.


Per quel "non scorrere", dove nascita e morte si sovrappongono mancandosi di poco, la nascita somiglia a un pianto di dolore, mentre nel posto umido, nuovo e sconosciuto dove ora sono stato imprigionato, sento aria di festa attorno a me, e mi pare proprio la prova che l'intelligenza me la devono avere tolta del tutto.

lunedì 28 giugno 2010

L'odio


L'odio non si riesce proprio a descriverlo, ed è un peccato doversi affidare alle prove.
Purtroppo il bisogno di spiegare cos'è non coinvolge solo gli scrittori; interi popoli sono impegnati a costituire esempi fin troppo espliciti su questo sentimento, che sa trascinare le comunità degli umani più della sagra dell’albero della cuccagna.
Sì, perché sul palo dell’odio non c’è il grasso spalmato che ostacola la salita, e ci si arrampica in tanti e tutti insieme, nell’euforia di avere tante ragioni da vendere, senza pensare che in cima non è appeso nulla e che il palo non reggerà il peso di tutti.

Grazie disgrazie



Tommy non sapeva se fosse un buon segno o l’inizio di una catastrofe, ma attraverso la fessura dei suoi occhi riusciva a vedere una moltitudine di persone in lacrime che lo toccavano, facendosi il segno della croce subito dopo. Non che lui avesse qualcosa da ridire sulla croce, ma gli pareva strano che prima lo toccassero. L'ultima cosa che la sua memoria aveva tatuato sulla propria spalla era un'intensa luce, esplosa proprio mentre stava mandando un messaggio di auguri, col telefonino, non si ricordava più a chi. Certamente a uno di questi che lo stava toccando prima di segnarsi. Stette immobile ancora un poco, nel timore di potersi alzare da quella comoda prospettiva ma, alla fine, si decise ad aprire un occhio. Uno di quelli che lo aveva appena toccato fece un passo indietro e glielo richiuse, come si fosse sentito responsabile di quello strano riflesso della palpebra che si era ritirata. Tommy non fiatò, e gli parve quasi giusto dover tornare al buio appena lasciato. Dopo qualche altro segno della croce si decise e aprì l'altro occhio, che focalizzò zia Teresa, quella zoppa che non moriva mai. Lei lo fissò senza allarmarsi e glielo richiuse con dolcezza. A quel punto Tommy provò ad alzare il capo, ma i muscoli non rispondevano ai comandi pigri che gli aveva inviato. Riprovò ordinandoglielo, ma non accadde niente. Allora aprì tutti e due gli occhi, urlando con lo sguardo al coperchio che stava rimettendolo nel buio pesto del quale non riusciva a liberarsi. Sentì ancora il rumore del trapano che avvitava il suo destino all'oscurità e uno struscio sopra la faccia, che doveva essere la voce di una composizione di rose arrivate a sostituire il cielo che non avrebbe più rivisto. Tutto sommato lì dentro si stava comodi, e l'unica cosa che gli spiaceva stava nel messaggio di auguri che aveva mandato a qualcuno di quegli stronzi lì fuori. Il discorso del prete gli parve persino bello, non fosse stato per quel "Accettalo con te, Signore, come noi lo abbiamo accettato qui, con noi, sulla terra"…

Consigli sullo scrivere un capolavoro



Scrivere una storia è facilissimo, a patto di non avere la storia già tutta scritta nella mente. Quando si sa già cosa dire ci si trova nella stessa condizione in cui è un manuale d'istruzioni, che è freddo, preciso, saputello e anche stronzo. Sono queste delle qualità, a parte lo stronzo, che servono a poco. Occorre che lo scrittore inventi, quando deve fare cronaca, oppure si attenga ai fatti quando deve inventare. Non è semplice come sembra, perché la verità è sempre in agguato, pronta a svergognare chiunque, e allo scrittore avanza solo la possibilità di convincere il lettore che la verità sta raccontando palle. Per fare questo è necessario che chi scrive creda per primo alle bugie che racconta, perché se non ci crede lui non può pretendere che ci creda chi è più intelligente di lui. Uno scrittore di talento deve dare per scontato di essere più stupido del più idiota tra i suoi lettori, e questa è una manovra ardua, perché chi crede alle palle che racconta difficilmente dà credito alla verità. Una volta superate queste prime difficoltà, che scremeranno chi ha talento naturale da chi ce l'ha artificiale, si può partire con lo scrivere un capolavoro, l'opera d'arte arriverà dopo, quando i lettori del capolavoro si saranno convinti che se fosse venuta in mente a loro, una cosa così acuta e intelligente, l'avrebbero depositata in banca e non data alle masse ignoranti.
Lo scrittore deve saper rendere interessante anche una cagata che tutti conoscono per averla sentita narrare dalla nonna sclerotica, che dopo due minuti che parla viene voglia di ucciderla senza rimorsi. Già, i rimorsi, ecco un'altra caratteristica essenziale che non deve coltivare uno che scrive falsità.
Scrivere implica conoscere in anticipo le aspettative del lettore, in modo d'aggirarle rivoltando la storia tante volte quante sono necessarie per spiazzare il lettore. Poiché i lettori sono molti -almeno si spera- si renderà necessario prenderne uno a casaccio come modello, secondo le ben note leggi della statistica. La cosa si complicherà parecchio per gli scrittori single e senza amici, che abitano in villette non a schiera fuori dai centri abitati.
In pratica si inizia a raccontare accompagnando il lettore a farsi delle convinzioni che in seguito saranno demolite, dimostrandogli che la colpa è sua se non ha notato quel piccolo particolare del racconto che noi avremo opportunamente nascosto tra le righe del sottintendere.
Operando in questo modo, ogni volta che il lettore pare abbia in mano il bandolo della matassa, non si avrà più la necessità di un finale intelligente, perché il lettore accetterà qualsiasi cosa pur di chiudere il libro e regalarlo al suo peggior nemico. D'altronde l'arte dello scrivere si appoggia sulla diffusione, e a noi che cazzo ci frega se quei due sono nemici. Chi pensa che il passa parola che determina il successo di un'opera abbia solo valenze positive, non ha capito la ragione per cui la Divina Commedia è il libro più conosciuto e meno letto dopo la Bibbia.

La sala d'aspetto




Morire non deve spaventare, perché si è sempre aiutati dal deliquio che attutisce il dolore, mentre nella sala d'aspetto che ti attende dopo non c'è una sola possibilità di perdere conoscenza.
Chi s'immagina che il morire sia semplicemente qualcosa che cessa di essere deve solo sperare di crederci fino in fondo, perché solo in quel caso gli sarà concesso di dormire ancora un poco e riposare, fino a quando non si può dire, e non sarà piacevole scoprirlo. Io ho preferito stare sveglio e guardare gli eventi, nella convinzione avuta nella vita lasciata alle spalle, che è sempre meglio sapere che illudersi, se si ha la forza di sopportarlo.

Non so ancora perché di questa sala d'aspetto non si sapeva nulla, quando si respirava in un corpo che pulsava liquidi, ma immagino sia per la stessa ragione che ci impediva di imporre al cuore, col pensiero, la vita o la morte.

La sala è delimitata dalla natura di una domanda, la quale è una per ognuno, ma uguale per tutti.
Io ora sono dall'altro lato di quella domanda, per la quale mi è stato concesso di vedere la risposta, per questo posso raccontare della sala, e del Mistero che continua dopo.

Nella sala non c'ero che io e i miei dubbi, e un velo sul cuore della mia intelligenza.

Lo scopo della sala è quello di scostare quel velo senza sostituirlo con la pazzia.

L'Intelligenza che rivela svelando non ha necessità che la domanda sia posta, né risponde a parole, ma io quelle devo usare se voglio dire a voi della mia pena.

Avevo davanti a me il cielo, nero e spesso dell'incoscienza, pieno di numeri scritti con la luce, che si risolvevano e complicavano in formule indecifrabili, che diventavano stelle sempre più grandi e misteriose. Tutti quei calcoli erano cominciati da un numero, l'uno, e in tutti quei numeri successivi quella unità era lì a sorreggerli, motivandone il senso.
Non c'era, in ogni parte di quella inestricabile complicazione di numeri, un numero che non dovesse la sua necessaria esistenza all'uno iniziale, del quale costituiva una modificazione.

Qualsiasi risultato di quel vivo calcolare sarebbe dipeso dalla legge impressa dall'unità primordiale, pallottola di un pallottoliere del quale non si poteva vedere il telaio.
Quell'unità era una totalità che tutti i calcoli aveva dentro di sé prima che si potesse calcolare.

Le conseguenze di questo erano stupefacenti, perché l'inizio e la fine coincidevano nell'unità, ma in tutto il correre che li separava ci stava la nostra sofferenza del vivere, insieme alla nostra gioia.

Ogni evento nel quale ci si trova è reso possibile dai nostri bisogni e dai nostri sogni, ogni goccia di pioggia, ogni raggio di sole è dedicato esclusivamente a ognuno di noi.
L'intero universo esiste, perché ognuno di noi è.
L'universo è personale e riservato, nel suo non essere una proprietà.
Se piove perché abbiamo bisogno di bere, piove per ognuno di noi, solo per ognuno di noi.
Se il sole deve asciugarci, ogni suo raggio è dedicato a ognuno di noi. Tutto il sole esiste, perché ognuno di noi è.
Quando si osserva il cielo nero che contiene la possibilità del giorno lo si vede pieno di calcoli che brillano; quei numeri sono, per ognuno di noi, diversi e dedicati a ognuno di noi, ma da tutti sono visti come fossero gli stessi dedicati a nessuno.

C'è una ragione per la quale io, ora, posso parlare.
Questa ragione vale solo per me, nessuno di voi mi potrà capire e io, per questo, non riuscirò a svelarvi il Mistero che vedo, per questo la sala d'aspetto aspetta anche ognuno di voi.
Lei è unica per ognuno, e risponderà alla domanda che ognuno avrà nel cuore della propria intelligenza.
Nessuno di voi saprà in anticipo che quella domanda è la stessa per tutti, ognuno crederà che sia solo sua, la sua propria domanda, e che la risposta sarà a misura di ognuno, e così è, perché tutti noi siamo quell'Uno, senza ancora saperlo.

domenica 27 giugno 2010

Sul fine e i mezzi per raggiungerlo

Questo scritto è dedicato e rivolto a tutti coloro i quali sono convinti che, poiché l'esistenza deve la sua sopravvivenza alla violenza dell'inter-divoramento dei suoi elementi, questo sopraffarsi vicendevole, che poi vede il più forte sopravvivere a scapito del debole, viene interpretato come fosse una buona ragione perché sia emulata quella forza che garantisce il guadagno di un vivere indegno. Il mio breve studio mostra che costoro hanno torto e, con loro, intere correnti ideologiche e di pensiero degradato che hanno segnato di crimini e genocidi la triste storia dell'umanità.

C’è chi pensa che il fine giustifichi i mezzi e chi dice che è, invece, l’insieme dei mezzi usati per raggiungerlo.
La questione sollevata dall’accostamento di queste due visuali, in opposizione tra loro, è così interessante e importante da dover essere sviluppata e chiarita, perché le conseguenze che ne derivano sembrano altrettanto inconciliabili dei due punti di vista che si fronteggiano, ed è importante trovare una soluzione che sia in armonia con i principi universali dell’esistenza.
Se questo fine fosse rappresentato da un numero, scomponendo a ritroso questo numero si vedrebbe che i numeri ottenuti da questa divisione porterebbero al numero rappresentato da questo fine per differenti vie di calcolo, le quali sono altrettanti modi diversi di calcolare, per somma o sottrazione o per moltiplicazione e divisione, questi numeri parziali che condurranno a quello totale. Così, se il fine fosse dieci, le dieci unità che lo compongono arriverebbero al dieci per somma di unità, ma potrebbero arrivarci anche per moltiplicazione, con un due per cinque o con un tre più tre più tre più uno, oppure tre per tre più uno, o cinque più cinque etc.
Questo modo di arrivare al fine utilizzerà I numeri che sono compresi nel dieci, e sarebbe la rappresentazione di un fine che è esplicato dai mezzi che gli appartengono.
L’altro caso, invece, può riferirsi a una sottrazione o a una divisione, e il numero dieci essere ottenuto, per limitarci a un paio dei molteplici e possibili esempi, da trenta meno venti o da quaranta diviso quattro. Né il primo, il trenta, e neppure il secondo, il venti, allo stesso modo del quaranta, sono compresi nel dieci, eppure conducono allo stesso identico fine: il dieci.
Si è costretti ad ammettere, di conseguenza, che il fine sia possibile raggiungerlo sia con mezzi compresi in quel fine, sia con altri che non lo sono.
Eppure risalta, con evidenza, che gli esempi fatti fino a ora sono di un ordine essenzialmente riferito all’aspetto quantitativo dei numeri. Che succederebbe quando il fine da considerare appartenga a una diversa sfera di realtà e che questa sia da valutare sotto l’aspetto qualitativo, come accade per la quasi totalità delle realtà, semplici o complesse?
Si potrebbe, in questi ultimi casi, applicare la stessa logica valida per i numeri?
Qualità e quantità sono due principi che possono anche essere considerati, sul piano della realtà in cui si trovano, poli opposti di quella stessa realtà, considerabile rispetto a uno o all’altro dei due. Necessariamente ogni qualità conterrà la traccia di una quantità, nei confronti della quale sarà dominante, e ogni quantità, viceversa e sull’altro lato, avrà in sé quella di una qualità verso la quale prevarrà.
La distanza che separa qualità e quantità determinerà anche un percorso nel quale i due termini misureranno distanze tra loro diverse, attraverso gradi diversi.
Questo significa che il polo qualitativo perderà in qualità e guadagnerà quantitativamente avvicinandosi a quello quantitativo e quello quantitativo aumenterà la propria qualità allontanandosi dalla quantità nel suo procedere verso il polo qualitativo.
In questo percorso entrambi i poli assumeranno le caratteristiche del polo al quale si avvicineranno e perderanno quelle che lasceranno dietro di sé, e quindi vicino al polo che si allontana. Questo percorso non è lineare, ma ciclico, così che ognuna delle due polarità, al suo estremo, si trasformerà nell’altra e ricomincerà sul piano contiguo il suo ciclo dinamico. Ciclo che ha come fine il raggiungimento di equilibri più vicini alla perfezione, quando è un ciclo evolutivo, mentre se sarà involutivo degraderà in un peggioramento del suo stato, il quale provocherà la rottura dell’equilibrio lasciato. Ritornando alla ragione di questa analisi, occorre dire che quando un fine è caratterizzato da una natura principalmente qualitativa, questo fine non potrà essere ottenuto da azioni che siano quantitativamente dominanti perché, con questo, verrebbero a mancare gli elementi che determinano e conferiscono qualità, a ragione della distanza nella quale si invertono le caratteristiche dei due termini dell’opposizione prima considerata. Al contrario, invece, quando il fine sarà essenzialmente di un ordine quantitativo, sarà possibile ottenerlo anche con mezzi nei quali la qualità non domina, consentendo di andare oltre alla rigorosità qualitativa.
Per rifarci al calcolo matematico, per l’analogia che deriva da quello, si deve dire che se è vero che un fine quantitativo è raggiungibile anche attraverso una diminuzione o una divisione degli elementi quantitativi che, esorbitando quel fine, si devono ridurre per arrivare a raggiungerlo, è altrettanto vero, al suo opposto, che un fine qualitativo è ottenibile soltanto da un aumento e mai da una perdita di qualità. Come ultima considerazione è necessario ricordare che mai il fine deve essere confuso coi mezzi impiegati per raggiungerlo, perché anche se esso sarà il risultato dei mezzi utilizzati, sarà sempre maggiore della somma di questi mezzi, così come è per ogni totalità in relazione alle parti di cui è composta.