mercoledì 29 giugno 2011

Deceduto ieri


Sono deceduto ieri sera, improvvisamente e per una ragione che non conosco, e non so neppure dire dove mi trovo.
Non ho contatti con la realtà in cui vivevo, della quale conservo un ricordo nitido. Non sono qualcuno che vaga, perché non sto in un luogo diverso da quello in cui mi mettono i ricordi. Non sono in grado di riconoscere uno scorrere temporale, perché sono consapevole dell'istante che mi sta addosso, senza avere spazio per misurare il suo scorrere. So che sono, e ho la sensazione che sia impossibile cessare di essere, ma non conosco ancora la distanza che separa l'essere dall'esistere.
Ho paura, perché quello che conosco appartiene a un passato che tornerà solo vestito delle sue imprevedibili conseguenze.
Che cosa strana l'aver creduto che la morte debba svelare verità che non le appartengono.
La mia morte è andata via di fretta, portando con sé anche il segno del suo artiglio, e mi ha abbandonato al futuro che è qui, immobile come uno spavento.
I miei pensieri sembrano essere una serratura che, per essere aperta, deve essere ruotata da una chiave che non ha mai conosciuto.
Pare che la libertà, quando è stata persa, abbia bisogno di una prigione da distruggere, e ho timore di essere io quella prigione.

giovedì 23 giugno 2011

Il pizzino degli scrittori


A me piace scrivere. So da me, contrariamente a un'opinione diffusissima, che il farlo nulla aggiunge, come nulla toglie, al vivere. 
Semplicemente aiuta a trascorrere del tempo che, altrimenti, sarebbe tedioso quando non pericoloso. 
A causa di un incidente, accadutomi meno di quattro anni addietro sono stato costretto, per quattro lunghi mesi, in una posizione che sarebbe stata più adatta al sesso estremo; sarà stato per questo che ho cominciato a scrivere, nel vano tentativo di deprimere questa orribile idea. 
Certo è che lo scrivere mi diverte, dando modo al lato peculiare del mio carattere - la presa per il culo - di distinguersi nella bolgia degli altri miei difetti gravi.
È stata proprio questa caratteristica che mi ha indotto a frequentare siti e forum dedicati alla scrittura e, più in generale, alla pubblicazione di racconti e poesie.
In questi luoghi, che definire virtuali sarebbe una sciocchezza, si incontra gente di tutti i generi, un vero bestiario, spesso variegato da inclinazioni caratteriali da puro incubo tamarro.
Se ci si volesse fare un'idea di questa coltre nera dell'anima occorrerebbe immaginarsi cosa potrebbe accadere, in una congrega di mafiosi se, di colpo, a tutti venisse in mente di prendere carta e penna per mettersi a scrivere pizzini.
Nei siti di scrittura il "pizzino" è lo stile a cupola che accomuna tutti coloro che si sono fermati ai modi d'espressione scritta insegnati nella seconda classe delle scuole elementari, nel migliore dei casi si arriva al primo trimestre della terza.
Naturalmente appena questi "scrittori" si trovano davanti agli occhi un periodo scritto che non si rifaccia alla lista della spesa, e che ecceda le sei parole consecutive, senza un prezzo riportato subito a lato, stralunano gli occhi al cielo come quando sospettano di essere stati intercettati dalla finanza che, per loro, corrisponde a un'aggregazione mafiosa, antagonista alla loro anche se meno organizzata.
Apriti cielo se in questa fila, interminabile per loro, di parole, si nascondesse pure un concetto compiuto e intelligente, da essere confinato subito tra le realtà indefinibili. 
Quando a degli "scrittori", come questi appena descritti, non è chiara una situazione… nel salotto da loro occupato si scatena l'inferno, e tutti si lanciano contro l'intelligenza intrusa, sentendosi dei leoni che inseguono una gazzella zoppa. 
Prende così avvio la sommossa degli appartenenti a un popolo, virtualmente privo di virtù ma che si crede favorito da doti celesti, che ha come obiettivo la distruzione di quello che, ai loro occhi, appare essere il pericolo maggiore per una sopravvivenza letteraria comune, e fors'anche per un attualmente ancora lontano, ma comunque immaginifico destino editoriale, magari pressato in un'antologia dal titolo: "La mafia non esiste, e se esistesse noi non sapremmo riconoscerla".
La prima cosa che questi "scrittori" mettono in atto è un aggregarsi comune sotto la stessa identica opinione, così riassumibile: l'estraneo è un infiltrato venuto qui per mostrare a tutti che lo scrivere libero ha, come indispensabile radice, il rigore a dei princìpi di correttezza intellettuale. Princìpi che sono il prolungamento di altri princìpi, ancora più importanti ed elevati, ai quali tutto l'esistente deve la sua ragione essenziale d'essere.
Nessuno tra gli scrittori mafiosi che scrivono di sé, descrivendo in terza persona le proprie eccezionali qualità intellettuali, si domanda cosa siano dei princìpi, tanto più se questi sono di un ordine universale, dunque applicabili, nel loro legiferare, a tutto ciò che esiste. 
Non hanno bisogno di farlo, perché loro danno al termine "principio" esclusivamente il significato opposto che questa parola dovrebbe avere: non la legge d'amore attraverso la quale l'esistenza è stata donata, ma quella dell'odio per cui sarà tolta.

martedì 21 giugno 2011

Sulla Poesia


Naturalmente non è consigliabile stabilire regole che possano recintare ciò che dev'essere libera, per imposizione data dalla sua stessa natura. La poesia costituisce esempio di questa necessità di libertà, sulla quale è centrata la sua ragione d'essere essenziale. Sarebbe impensabile, per la stessa ragione, definire esattamente cosa sia o non sia la poesia, perché ogni definizione escluderebbe un aspetto senza il quale la libertà di essere della poesia sarebbe negata.
Tutto questo non impedisce, però, di fare considerazioni sui diversi aspetti dei quali, la libertà poetica, si avvale per esprimere le proprie intenzioni.
Ogni poesia ha, in sé, più o meno velati, uno o più significati che stabiliscono il senso, che è direzione interiore del poetare. A questo senso è associata una musicalità, composta dai suoni che accompagnano le parole nel modo di essere accostate tra loro; parole che racchiudono, e nel contempo liberano, il significato da mostrare. Il risultato finale di una poesia sarà dato dall'incrociarsi di queste caratteristiche, dunque dall'accordarsi finale del senso e della musicalità che le distingue, dalla mancanza di senso associata all'assenza di musicalità, dal significato privo di armonia espressiva o dalla sola presenza di sterile esteriorità armonica. La completezza di un significare valori, attraverso la magia della musicalità che costituisce le ali con cui questi valori s'innalzeranno al cielo, o precipiteranno negli inferi, nessuno può definirla definitivamente, perché la poesia non è una chiave che apre al mistero dell'esistenza, ma è uno dei modi in cui il Mistero si concede non per essere svelato.
La poesia è paziente, e si lascia creare senza lamentarsene, perché per essa si lamenteranno i versi con i quali si è voluto storpiarne il fine, quando il suo fine naturale sarà offeso. Il fine di ogni libertà, condizionata dalle parole, è nella Libertà di sommare le parole per esprimere significati che nessuna singola parola può riuscire a trattenere dentro di sé. Libertà che, per essere compresa e utilizzata, deve poter essere anche vista e vissuta dentro di sé, nella dignità data dal sapersi sacrificare la quale, sola, è in grado di contenerla.

giovedì 16 giugno 2011

Auguri mister Brunetta...

Lo scrivere... oggi...


Tutti, bene o male e prima o dopo… scrivono qualcosa. Scrivere è uno dei modi che il bisogno di condividere comunicando ha dovuto scegliere, da quando il parlare ha cessato di essere la via eletta attraverso la quale gli umani si coccolano o si sgozzano. 
Lo scrivere presenta indubbi vantaggi sulla comunicazione verbale, primo fra tutti il non potersi guardare negli occhi. 
Non è difficile capire che quando gli sguardi s'incrociano può accadere di tutto, a esempio che la scrittura possa cedere posto ad altro, e non è raro che questo altro siano feroci accapigliamenti o, più occasionalmente, accoppiamenti animaleschi. 
La relazione che utilizza i suoni, ammalianti o febbricitanti, del dialogo verbale è messa a rischio da un'emotività che richiede maturità raffinata per non finire in zuffa, mentre se le proprie fisse sono stati fissate da inchiostro, sarà più facile controllare gli impulsi sanguinari che seguiranno. Le guerre campali dei tempi che furono lasciarono sul terreno migliaia di cadaveri dalla lingua troppo lunga. 
Oggi, invece, alla fiera del libro al massimo ci sono due o tre omicidi, e sono sempre gli editori che ci lasciano le penne, massacrati in qualche bugigattolo dietro le quinte di un palcoscenico. 
È proprio questo maledetto palcoscenico il centro dei problemi più gravi che chi scrive deve saper eludere.
Dando per scontato che lo scrivere sia molto meno essenziale, come necessità, dell'andare a fare il proprio bisogno al cesso, è giusto e doveroso ricordare che i nostri antenati scrivevano poche cose importanti, anche se queste sono state assai più numerose di quelle che scriviamo noi oggi. 
Un esempio è costituito dalle tavole dei dieci comandamenti, scritte in un'epoca in cui tutto era affidato al sibilare delle parole. 
Ecco che, insieme a quelle tavole, in pietra a sottolineare il peso di quelle prescrizioni religiose, rivelate a genti che ancora picchiavano i propri genitori per rovistare nelle loro povere tasche disadorne, siamo costretti a rammentare che il Padreterno ha scritto quella unica cosa affibbiandone la responsabilità a un altro, Mosè, che da quel momento in poi non ebbe più rapporti sessuali di qualsiasi natura questi potessero essere, lasciando questo serio problema in eredità a tutti i suoi successori, scrittori del futuro.
E qui si presenta da sé la ragione più importante per la quale una moltitudine di individui si arrischia a scrivere di emozioni e considerazioni ipotetiche, più raramente di voglie appassionate.
Dietro a scenari inverosimilmente arzigogolati si cela l'ansia di fare nuove conoscenze da portarsi a letto o, in alternativa, da sdraiare sul sedile di un'utilitaria.
A questo scopo non si hanno remore persino a fare della poesia sdolcinata e melensa mentre, allo stesso inconfessabile scopo, ci si butta addirittura a scrivere delle inverosimili, quanto assurde, cagate prive di ogni dignità poetica, che riscuotono pure un incredibile successone tra un pubblico di imbecilli volonterosi; successo primordiale come è l'ansia repressa che lo ha motivato.
Sono balle per oscurare la verità quelle che affermano essere, la scrittura, il modo più pregiato di fare della cultura. 
Balle che sarebbero capaci di dare un attestato di merito allo sforzo che ha voluto la più grande e diffusa biblioteca di tutti i tempi, più sofisticata, in termini di indagini interiori portate a termine sulla natura umana e divina, di quella alessandrina: la catena di negozi porno che fa parlare male di noi su tutti i pianeti che compongono la Via Lattea, per il momento non ancora siliconata.
Il mio numero di telefono, comprensivo di tariffario, lo trovate sotto le mie note personali. Telefonare per appuntamenti solo quando mia moglie è fuori a fare la spesa...

martedì 14 giugno 2011

La natura della verità


La verità è tanto paziente quanto implacabile, e a nulla aiutano i soldi per comprarle vesti pregiate o scadenti, perché la verità ama la nudità.
La verità è analoga alla nascita di un uomo, ha freddo come lui e piange, quando è sottomessa all'essere riconosciuta dai fatti che le accadono intorno.
È abbigliata a causa della sua sfacciataggine priva di morale, è protetta con fronzoli colorati, è accudita in modo che non sia accessibile a tutti, è immobilizzata nella rigidità che non vorrebbe vederla crescere.
È costretta dalle convenzioni considerate utili alla sopravvivenza, senza che ci si accorga che nulla sopravvive più a lungo di lei.
È circondata da carcerieri crudeli che la offendono senza conoscerne le intenzioni.
La verità non ha intenzioni, a parte quella di non portare maschere.
La verità non prova pietà, tranne quando aspetta il momento giusto per rivelarsi.
La verità non ha bisogno di conoscersi, tranne quando non vede se stessa negli occhi di tutti.
La verità non ama parlare di sé, preferisce lo facciano i fatti.

lunedì 13 giugno 2011

L'ultima Centrale



Era l'ultima centrale nucleare rimasta attiva sul pianeta, ultima determinata volontà a ricordare quanto fosse conveniente poter disporre ancora di una fonte, quasi perenne, di sostentamento energetico. 
La necessità di approvvigionare di corrente il grande schermo divulgatore, posto al centro della piazza della rivoluzione industriale, aveva trionfato sulle ormai esigue proteste di chi aveva ritenuto doveroso l'affidamento della propria sofferenza ai capricci di una natura perfida e insidiosa. 
Il gigantesco spettacolo elettronico relegava albe e tramonti al ruolo di tiepidi sfondi, inadeguati a celebrare la grandiosità del genio umano che esibiva i propri successi, facendoli scorrere all'interno di una cornice archeometrica, composta di leghe di alluminuri intermetallici di titanio che ne esaltavano la veridicità. 
Una voce dal tono imperioso, morbidamente modulata sulle aspettative di un futuro radioso, che si sarebbe scolpito da sé, descriveva con enfasi religiosa gli obiettivi già raggiunti, accarezzando il piacere dell'essere riusciti a snaturare la paura dell'ignoto che aveva attanagliato i selvaggi di un tempo dimenticato che avevano tremato, guardando stelle mai state così vicine a quel tremore. 
Era stato deciso di non soffocare il brusio delle sfere celesti rinunciando a decibel trionfanti, prodotti da enormi amplificatori da far confluire in casse armoniche, esose in termini di approvvigionamento energetico, per lasciare al cielo la possibilità di scusarsi, attraverso i suoi lampi assordanti, di aver ostacolato il raggiungimento della perfezione di una specie, quella umana, dalla quale era già stato perdonato. 
Anche la ciclicità degli eventi commemorati era stata prefigurata con cura, in modo che non si notasse il momento di congiunzione del loop ripetitivo nel quale gli eventi scorrevano davanti all'orizzonte stupito. 
Nulla era stato lasciato al caso, nella certezza che ci sarebbe stato un probabile futuro in cui esseri alieni avrebbero goduto, gioendo con le nostre ombre impresse sulle rocce fuse, nel ricordo di un umanità che non avrebbero mai incontrato.

domenica 12 giugno 2011

In un istante interminabile


Quanto tempo sia trascorso dall'inizio del tempo non lo si può sapere, come non si può conoscere quanto tempo manchi ancora alla fine della durata, ma lo spazio nel quale quest'ultima misura se stessa non terminerà nello stesso, congelato, istante. 
In un attimo l'attimo immobile cesserà di pulsare nella lagna della vita e di far seguire, a note sempre diverse, altre diversità. 
Lo spazio arresterà la sua corsa nel tempo e, per un interminabile momento, tutto l'esistente si preparerà a intonare l'antica voce del suo nuovo lamento.
Ogni ciclo vitale è frutto di altri cicli più piccoli, determinati dall'essenza della stessa legge che muove il cielo.
In ogni rotazione si esprime un'armonia cosmica che può trasformarsi nel proprio contrario senza, in questo capovolgersi, riuscire a modificare l'armonia generale del tutto.
Insieme a questo vortice io non sono riuscito a danzare; il troppo peso che porto in me lo ha impedito, e ora sento l'inerzia arrivare, con la stessa tristezza amorevole nella quale ogni tramonto prepara il ciclo che verrà.
Non conosco il futuro che sta oltre la mia morte, come non ricordo il passato prima della mia nascita, ma so di dover appoggiare i miei piedi su quelli di un destino sconosciuto che mi dice di esserci in ogni inciampare della mia libertà.

mercoledì 8 giugno 2011

Lo strano sogno di Vidharr


L'universo si sa, è uno, a immagine del Centro che l'ha generato, e tutto comprende non potendo escludere che l'impossibile a realizzarsi in nessuno dei suoi indefiniti piani di realtà, quello dei sogni compreso.
— Lì si realizzano le cose più strambe— 
pensò Vidharr, guardandosi attorno stralunato, nell'impossibilità di cogliere il senso di quello che vedeva. I nani, escluse rare eccezioni, non dormono molto e si danno un gran daffare a costruire castelli e strade in dura pietra, scavare miniere dove estrarre metalli e pietre magiche e corteggiare nane pericolose, con le quali tentare invano di esporsi in vanterie che le nane mortificano senza alcuna pietà, maneggiando una cruda superiorità intellettuale che è l'unica arma che un nano ha problemi a schivare.
 Questa loro natura non li spinge, di solito, a dare eccessiva importanza al corpo dei sogni evanescenti che insidiano la loro connaturata solidità.
 Per la stessa ragione i nani poco apprezzano tutto quello che mette in precario equilibrio convinzioni e conoscenze, le quali si allungano misteriosamente nel loro epico passato, allo stesso modo in cui l'intreccio di grotte, scavate dagli antenati, si perde sprofondando verso il centro del pianeta, infuocato come la fucina che arde nei loro cuori.
 Ma questa volta era uno strano sognare, quello che accompagnava le solide convinzioni di Vidharr verso il pericolo di sgretolarsi, e i responsabili dovevano essere stati i funghi raccolti nella grotta del labirinto oscuro.
 Gli tornavano alla mente antichi ricordi di frasi sussurrate alle sue orecchie appuntite dalla nonna, che gli ordinava di calpestare quei frutti del diavolo e di non guardarli neppure.
 Lui, entrato nella grotta del labirinto oscuro inseguendo un coniglio selvatico, si era perso e aveva vagato per un tempo interminabile tra quei cunicoli, ciechi come la sua anima che aveva dovuto azzittire per riempirsi lo stomaco. Già, lo stomaco. La sua nonnina gli aveva insegnato a diffidare anche di quello, assicurandogli che era l'antro del demonio e che aveva due uscite: una davanti e l'altra dietro, ma tutte e due conducevano all'inferno.
 Come non darle ragione ora che nei suoi occhi quelle fiamme roteavano insopportabili, pulsandogli nel petto come a volergli urlare che il mondo stava lì, davanti alla sua intelligenza, ma non era come lui l'avrebbe voluto, era molto più bello.
 Aveva dovuto mangiarli quei maledetti funghi, per non morire di fame, e non era più sicuro che ne fosse valsa la pena. Adesso che il mondo parlava non attraverso la solita voce che lo aveva tormentato fino a quel giorno, ma per immagini nude, veloci e crudeli come sa essere la verità quando esplode. Di fronte al terremoto di emozioni che gli faceva tremare quel suo cuore di nano, generoso e temerario, che segnava il centro del suo esserci, lui era immobile perché non c'erano frecce da schivare né lance da spezzare. C'era solo un nano e la sua dignità, offesa dal nuovo scorrere degli eventi che l'avevano ricondotto fuori da quel buio, ricomponendo il labirinto della caverna nell'altro labirinto, quello interiore e che, stando fuori dalle sue previsioni, aveva una sola uscita che sfociava nel destare il suo spirito.
 Il bosco era più gigantesco di quando l'aveva lasciato per entrare nel labirinto oscuro, e vivo come non lo aveva mai visto prima.
I rami si muovevano sinuosi e sembravano salutare la sua diversa coscienza che, confusa da tanta bellezza, gioiva come se avesse avuto le ali.
 I piedi si muovevano leggeri tra i rami secchi, e le foglie erano percorse da tutte le sfumature che il giallo conosce. Non un inciampo sul sentiero non tracciato dagli uomini, ma solo da un Mistero che si divertiva a nascondersi, mostrando i propri fantasmi in una vorticosa danza di immagini che inebriavano di vertigine.
Il suo turbinio di pensieri aveva la forma delle nuvole che si rincorrono nel vento, assumendo forme che non si possono fissare, senza meravigliarsi della sfrenata fantasia di un cielo che non era mai stato vuoto.
 Arrivò al villaggio a sera inoltrata, stanco e con gli occhi cerchiati da cornici nelle quali ancora correva l'energia dello stupore.
I bimbi gli corsero incontro in cerca di bacche dolci, ma si fermarono quando sentirono il tremore nelle sue mani e lo videro stanco e sfatto, come un letto dove si è trascorsa la notte a piangere.
La notizia del suo arrivo, dopo una settimana di assenza, si diffuse veloce quasi quanto la contentezza di saperlo vivo, e Ghedra non ebbe nemmeno la forza di corrergli incontro perché quella forza doveva servirle per frenare le lacrime.

— Fannullone di un marito incosciente!— Vidharr sentì tuonare nella testa, e pensò che mai Ghedra si era così avvicinata alla sua realtà interiore.
 L'effetto dei funghi era ancora nel pieno dello sfavillio di meraviglia e Vidharr sapeva che il suo nuovo vedere gli avrebbe rivelato un lato del suo villaggio che non avrebbe mai voluto conoscere.
 Entrò nella sua casa e gli sembrò troppo piccola per un cuore che era stato una cosa sola con la foresta e il cielo, nella consapevolezza di avere un unico Padre, più piccolo anche di un nano, ma più grande dell'universo intero.

Vidharr aveva un corpo temprato meglio di una spada, e sodo come quello di un sasso quando è privo di venature, ma il suo animo era gentile come una mammola appena uscita dalla terra per guardare la primavera, e l'effetto dei funghi lo stava scombussolando più dell'accarezzare una piccola pietra magica.
 Incapace di stare fermo, in quella sua casa che teneva fuori il mondo, decise di uscire e di sedersi sulla pietra tonda che stava al confine esterno del villaggio. Da lì avrebbe potuto guardare, senza essere disturbato, la fantasia del Padre che pennellava la realtà senza tralasciare un solo colore. I tetti di paglia che punteggiavano il villaggio, come i bottoni bianchi decorano un'amanita muscaria, sembravano prendere per i capelli le pareti che li sostenevano, e tutto aveva l'aspetto di stare a gambe all'aria. Nulla scombussola un nano più del ribaltamento delle proprie convinzioni. A pensarci bene era così anche per i gambalunga che, come accadeva per i nani, erano capaci di urtare l'evidenza, spintonandola, pur di appropriarsi della ragione.
 L'aria che ondeggiava divertita attorno ai suoi occhi lo convinse che le allucinazioni hanno un proprio spessore, che assomiglia a quello dei sogni, e che ti può far ridere nel sonno, oppure urlare di terrore.
 Ben presto, a cominciare dai bambini, una moltitudine di nani e nane gli si raccolse vicino, accovacciandosi attorno silenziosa, nell’aspettativa di una rivelazione che uscisse da quegli occhi i quali, diventati più neri e luminosi, mostravano di poter scavare una più profonda galleria dentro ai segreti che custodivano quella che era, per tutti, una realtà che mostrava la propria amorevolezza raramente, e solo alla chiusura del sipario.
 Vidharr, che avrebbe desiderato stare solo e che provava vergogna in quel sentirsi nudo davanti a un mondo che lo incitava, prese a guardarli uno per uno, alla luce delle vampate di fiamma fredda che illuminava quei volti tondi, nei quali erano incastonati occhi che volevano sapere cosa può nascere al di fuori del consueto.
Lui li percepiva come fossero tutti suoi figli, nati da Ghedra, la sua amata moglie, tosta, necessaria e fluida come è la pietra quando affila le lame.
 Non osava pensare cosa lui avrebbe potuto essere senza di lei la quale, in disparte per non forzarlo troppo, quella sera pareva essere dentro al suo cuore, e forse da lì non sarebbe mai uscita.

Allo stesso modo dell'esistenza, che nasce senza chiedere permessi solo perché può, la voce di Vidharr prese a modulare un flebile canto che usciva da quello che pareva essere uno zufolo nella sua gola:

Dolce è la bruma che circonda la sera come fosse profumo di una cosa non vera
Piano si espande come un pianto sommesso rivelando paure che le stanno nel mezzo
Come da storia antica si dimentica presto e ci si riaddormenta attorcigliati al canestro
delle cose volute da incantesimi strani con i cuori induriti come fossero mani
che si allungano a prendere una bruma che sfugge come il cuore di nano che per questo si strugge
    
Le note della nenia, uscita dallo sguardo col quale Vidharr abbracciava il piccolo popolo dei boschi, si dispersero languide senza incontrare resistenze, e molti furono i cuori che le seguirono, almeno tanti quanti erano i luccichii di commozione che riflettevano lo scoppiettare delle fiamme, alzatesi a sfidare il vento che le portava via con sé.
Vidharr non sembrava più lui, e Ghedra fu sorpresa che il suo nano potesse lasciarsi andare ai moti dell’anima, come avrebbe potuto fare solo indietreggiando nel tempo. Ma Ghedra non aveva dubbi che uno come Vidharr, piuttosto di tornare sui suoi passi avrebbe scelto il bivio più pericoloso, e infatti così lui fece.
Si alzò dal sasso battendosi i vestiti, alzando un polverone che fece tossire di risa i nani a lui più vicini; riassettò il fuoco maneggiando i tizzoni rossi con le sue corte dita, che non temevano neppure l’inferno. Poi si sedette a gambe allungate, ché i nani non riescono a incrociarle, e subito Ghedra gli si accovacciò dietro la schiena, per sentirne di nuovo il calore e aiutarlo a star comodo.
— Raccontaci cosa è accaduto nella caverna dell’oscuro labirinto, che ti ha spalancato le pupille da farle sembrare onice raro—
L’onice, per i nani come per i gambalunga, era una pietra dura e nera, e ricordava il cielo senza sole delle grotte scure, simboleggiando il faticoso cammino che un essere percorre dentro di sé.
Vidharr parve solcare con la memoria luoghi lontani, e la sua voce si mosse improvvisa, insieme al brillio col quale il Mistero si nascondeva nei suoi occhi
— Avrei dovuto capire subito che quel coniglio non era quello che sembrava essere— iniziò guardingo
— Correva troppo piano, come se volesse farsi prendere— continuò
— Mi stava a un palmo di distanza e non riuscivo ad afferrargli la coda — Quando mi tuffai, sicuro di prenderlo, mi ritrovai al buio e capii che quello era il destino di chi, interessato solo a cacciare, non si accorge di essere anche una preda—
Dalla platea un diffuso mormorio di ansia seguì quelle parole, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che ai nani non piace essere scoperti.
— Ma il coniglio era ancora lì, fermo davanti a me, e mi fissava come a voler sostituire con gli occhi una smorfia di scherno
— Mi lanciai di nuovo e ancora per innumerevoli volte, fino a quando non fu più possibile tornare sui miei tuffi—
— Ohhh!— dissero i bimbi, con l’aria di chi non avrebbe mai più assaggiato una coscia di coniglio.
— Vagai per giorni, maledicendo la mia testa dura, e pian piano mi accorsi di girare in circolo—
— Come in circolo?— chiese un nano anziano, da sotto una lunghissima barba bianca che lo faceva sembrare un Babbo Natale in miniatura, ed era questa la ragione che aveva fatto dimenticare a tutti il suo vero nome
— La caverna dell’oscuro labirinto è circolare?— insistette il piccolo babbo natale
— No— rispose Vidharr
— Ma la magia fa apparire le cose come non sono, oppure come sono veramente e non ce ne siamo mai accorti—
Un brusio di approvazione legò tra loro stati d’animo che ascoltavano sulla punta di piedi troppo grandi, se confrontati al corpo che dovevano portare in giro.
— Quel girovagare per il labirinto somigliava sempre più al non saper dare risposte alla vita, quando lei ti mostra che l’hai sempre osservata dal lato sbagliato—
Un silenzio gelido scese improvviso, perché nessuno lì in mezzo, nemmeno i bimbi, aveva mai pensato di potersi sbagliare
— Noi nani, che grattiamo la schiena al mondo e piantiamo gli alberi che ci proteggeranno domani, non ci chiediamo mai il perché del mondo, noi diamo per scontato che tutto quello che ci circonda è lì, per avere noi in mezzo—
Una voce vicina, proveniente dalla schiena di Vidharr, tentò di correggerlo
— Perché, dove saremmo noi, se non nel mezzo di ciò che ci accade?—
— Mio adorato intrico di peli e muscoli— replicò lui
— Certo che siamo nel mezzo, ma non più di quanto ogni cosa è nel mezzo di tutte le altre cose—
Ghedra si trattenne dal mollargli una gomitata nei reni e non insistette oltre, l’avrebbe stangato più tardi, a casa, ché non le andava che i bambini la potessero vedere
— Dopo, non so dire quanto, cominciai a sperare d’incontrare anche un pericoloso cinghiale, pur di mettere sotto ai denti qualcosa di peloso e diverso da Ghedra— disse, guardandola di sottecchi con la coda dell’occhio, autorizzandola così a suonargliene di santa ragione, una volta che fossero ritornati alla loro casetta
— Ma trovai solo dei piccoli funghi magici…—
I nani, nessuno escluso, potevano mangiare quei funghi solo quando volevano parlare di persona al Padre celeste, e poiché la storia del piccolo popolo racconta che col Padre si parla solo da morti, nessuno li voleva assaggiare
— Ho dovuto farlo, il coniglio prima e il labirinto poi mi ci hanno costretto—
Nessuno gli credette, perché sapevano tutti che Vidharr era un ingordo imbroglione, certamente anche buono, ma si sarebbe mangiato persino le sue unghie se non le avesse avute così corte e nere
— Dopo un’oretta il drago dormiente si prese cura del mio spirito e lo svegliò con un calcio nel sedere—
Ghedra si sentì improvvisamente in sintonia con quel drago anche se, non avendone mai visto uno, non credeva alla loro esistenza, raccontata dalle leggende del popolo dei vecchi nani, sempre ubriachi di frottole
Il folto gruppo che lo attorniava curioso parve sollevarsi dall’erba, e l’erba sembrò anch’essa in un’aspettativa ansiosa
— Terribili vampate mi allargarono gli occhi e vidi nel buio, sia quello che incupiva il labirinto magico che quello che sigillava con un opercolo il mio occhio interno—
Nessuno aveva mai parlato di un occhio interno nei nani, e tutti parvero sul punto di dover sbattere una palpebra che non sapevano dove andare ad aprire
— Sì, nemmeno io avevo mai immaginato di avercelo, eppure i funghi ti fanno guardare il buio illuminando dall’interno il cuore, e i pensieri che vengono fuori da lì diventano, di colpo, più chiari e diversi, capaci persino di considerare il mondo partendo dal suo centro, e non come facciamo noi nani, pesandolo dal di fuori—
Commenti sommessi si accavallarono tra loro come una marea di disapprovazione, e gli sguardi si nascosero dietro sottili fessure, come quelli che caratterizzano i preti dei gambalunga
— Bambini a nanna!— dissero, alzandosi in coro, voci femminili e preoccupate
— Che domani si deve andare nel bosco interno a raccogliere le bacche dolci—
Così, accompagnati in fretta da una nana anziana alle loro capanne, la foresta di pensieri ancora giovani non avrebbe chiuso occhio, cercando di sbirciare tra le canne del muro che li avrebbe divisi dalle parole di Vidharr, il “quasi mago” del labirinto oscuro

— Ma che significa guardare il mondo dall’interno?— chiese una voce che esauriva il pensiero di tutti
— Vuol dire che lo sguardo sul mondo osserva prima le ragioni e dopo gli effetti che provengono da quelle ragioni—
A tutti sembrò un’ovvietà, perché nessuno di loro si sarebbe mai sporto a chiedersi dell’uovo e della gallina, il piccolo popolo le uova e le galline se le mangia, mica ci si fanno sopra i discorsoni
— Così tu, Vidharr, nel labirinto magico hai saputo se viene prima l’uovo o la gallina?—
I nani erano poco inclini ai sofismi impegnativi, in compenso però, sapevano andare al sodo, anche quando non si trattava di uova cotte
— C’è stato un tempo— riprese Vidharr
— Nel quale il tempo non scorreva, ed era come se fosse stato immobile sopra al vortice degli eventi che si preparavano per stringere le pietre nella morsa degli accadimenti futuri—
Non un respiro si fece udire, in quella marea di teste pronte a ridere a crepapelle dietro le balle che sarebbero uscite dalla bocca di Vidharr, che adesso tutti avrebbero volentieri chiamato: “il guerriero rintronato”
— In quel “non tempo” c’erano i semi del mondo, e anche le uova che sarebbero state galline, e oche e uomini e, infine, persino i nani—
Da ancora più in basso di dove stava la ressa un chicchiricchìcchì tentò di avvisare dell’arrivo dell’alba, ma fu interrotto subito, e poco gentilmente, da un calcione che sollevò una manciata di piume che caddero velocemente a terra, svenute come fossero state di piombo
— Sicché noi nani saremmo dello stesso lignaggio dei gambalunga spilungoni che si credono più vicini di noi al cielo?— chiese una nonnina che aveva la voce curva come la sua schiena
— Non ho detto questo, ma solo che tutti proveniamo dalla “Non esistenza”, la quale precede l’esistenza, ed entrambe zampillano dal Mistero scuro che si è fatto chiaro senza che i nostri occhi lo riescano a vedere—…
— Almeno fino a quando i funghi non ne mostreranno l’assenza di forma—
A quel punto nessuno ebbe, per quello scorcio di ormai mattino, più niente da aggiungere, e persino il gallo fu soddisfatto di avere avuto la conferma di ciò che aveva sempre sospettato essere la verità, senza aver mai avuto il coraggio di rivelarla al mondo: viene prima l’uovo della gallina e lui, che era il papà dell’uovo… veniva prima ancora…

lunedì 6 giugno 2011

Oggettività e soggettività


Oggettivo e soggettivo sono due facce della stessa medaglia che, quando appuntata sul petto della coscienza... punge.
Ogni aspetto della realtà relativa assume una valenza specifica in dipendenza del punto di vista dal quale lo si considera. Punto di vista che, a propria volta, potrà essere diretto a una visione degli aspetti generali oppure particolari della realtà osservata. Ciò che è da considerarsi soggettivo può trasformare la propria validità in oggettiva quando quella soggettività è condivisa da tutti, ma dire tutti è uno stare su di un piano quantitativo che non modifica la qualità della cosa osservata la quale, in sé, si disinteressa dei giudizi che non ne cambiano la natura. Dunque l'oggettività di una realtà non può essere affidata alla semplice condivisione operata da una totalità di individui, i quali possono interpretare attraverso l'abito morale col quale hanno abbigliato i princìpi che non conoscono nella loro intrinseca nudità che morale non è, essendo questa determinata dall'intrusione, nei principi universali, del sentimentalismo emotivo, individuale o collettivo. Quello che si può dire è che nel loro potersi scambiare di posto la soggettività e l'oggettività non danno mai certezze di fissità. Bene e male si scambiano quel posto scomodo troppo spesso per meritarsi un nome che le possa qualificare per l'eternità che non potranno conoscere fino a quando saranno oggetto e soggetto di una divisione. È certo, però, che la Certezza conoscitiva, attorno a una realtà considerata, la si ottiene soltanto quando c'è totale identificazione tra chi conosce e chi è conosciuto - questo dal punto di vista di chi conosce - mentre si tratta di assimilazione quando il punto di vista è quello della realtà conosciuta, la quale assimila a sé il conoscente. La realtà tutta procede da un Centro senza estensione né durata, e a questo stesso Centro ritornerà, nel processo ciclico di manifestazione di sé che chiamiamo esistenza. La realtà divide se stessa in bene e male, ma sempre in modo illusorio e non definitivo nel percorso che, da un allontanamento dalla perfezione primigenia, centrale e assoluta, la condurrà alla maturazione delle proprie possibilità di essere, che le daranno modo di ricongiungersi al Centro atemporale dal quale ogni inizio è un riflesso dell'unità che tutto comprende in potenza. Unità non duale nella quale potenza e atto costituiscono una sola Realtà che si esprime perché può. Centro che non ha mai abbandonato a se stessa la realtà delle relazioni in perenne movimento tra loro. In questo Centro male e bene non hanno più ragione d'essere. Questo Centro è in noi e, allo stesso modo questo Centro ci contiene, secondo il punto di vista nel quale sarà considerato. Un punto di vista cessa di essere unilaterale quando coincide con la centralità che tutto osserva e valuta per ciò che la realtà valutata è. In questo caso, e solo in questo, la visuale ottenuta non è più un punto di vista, ma è pura consapevolezza della Verità senza tempo.

domenica 5 giugno 2011

Il problema della coscienza


Ci fu un tempo in cui fu creato lo spazio nel quale metterci il tempo, o il contrario, nessuno se lo ricorda più, fatto sta che in quella fatica del fare ci fu posto per combinare un gran casino. Finché si trattava di spazio e tempo, o il contrario, il problema della coscienza ancora non si poneva, ma sarebbe stata solo una questione di tempo, oltre che di spazio. Sì, perché da qualche parte la coscienza di sé doveva pure essere messa, dopo essere stata imposta.
La coscienza, prima ancora di sapere cosa fosse e cosa comportasse la sua presenza, andava commisurata agli esseri che ne avrebbero goduto, o l'avrebbero subita, secondo gli opposti criteri, rappresentati dai due punti di vista disponibili: quello del Creatore e quello delle creature.
Fu subito chiaro che la coscienza, non avendo un proprio peso specifico né una massa, non la si sarebbe potuta distribuire secondo una misurazione di corrispondenza volumetrica. Altri parametri non vennero subito in mente al Creatore delle creature, così fu deciso di dare a ogni essere una porzione di libero arbitrio, il quale avrebbe generato la necessità, per poter essere utilizzato, della coscienza di sé. Fu il libero arbitrio, quindi, a decidere il grado di coscienza di ognuno.
Per nessun genitore la concessione, seppur in piccole dosi della libertà di scegliere, costituisce manovra da attuare a cuor leggero, ma l'Assoluto non ebbe altra scelta che quella di concederla, perché la sua creazione doveva essere un allontanamento dalla Perfezione che Lui rappresentava e, dunque, una discesa nella possibilità di perdersi o ritrovarsi.
Nessuno potrebbe dire come tutto ebbe inizio, né se quello fu un inizio istantaneo oppure sofferto, e non si conosce neppure quali furono gli esseri comparsi per primi sulla faccia del pianeta che ci ospita. È questione ingarbugliata dal fatto che quando è la perfezione a dare motivo di essere al tutto… i primi esseri devono essere vicini a quella perfezione. Il contrario vedrebbe prossimi all'atto creativo gli esseri inferiori e peggio messi. Di seguito ci sarebbe anche da risolvere la qualità della posizione in cui saremmo noi umani, sulla scala gerarchica che dalla prossimità massima al principio creatore, si allunga verso il basso delle possibilità di essere.
A misurare questa gerarchia ipotetica dovrebbe essere il grado della nostra coscienza, capace di decidere anche la qualità della nostra libertà, e dei nostri drammi interiori.
È a questo punto che il credere o il non credere devono sopprimere il conoscere, altrimenti, se così non si facesse, si dovrebbe ammettere di essere tutti nella cacca.
Questo pensiero mi spinge a considerare la mia gatta sdraiata al sole, e mi riesce difficile credere di essere in una situazione di privilegio esistenziale. Per crederlo dovrò aspettare che attraversi la strada senza preoccuparsi delle strisce pedonali, e anche nell'eventualità tragica di un suo schiacciamento non tutti i miei dubbi sarebbero risolti.

venerdì 3 giugno 2011

La rotondità della luce


C'è un silenzio
che segue
ogni parola
in ciò che
la parola
non può dire
e una parola
che accompagna
ogni silenzio
per quello che
il silenzio
vuole significare
C'è amore
nascosto
in ogni moto d'odio
ed è amore
deluso
e c'è odio
pronto al balzo
in ogni parola
d'amore
Nel muoversi
d'ogni cosa
c'è l'immobilità
della Realtà
che ha generato
la Libertà
di poter decidere
per sé e
per gli altri
In questa libertà
c'è una cella
della quale
la menzogna
non ha la chiave
perché solo
la Verità
può aprirla.

Senza titolo, ma con finale a sorpresa


^^^^^^^^^^^^^^l |^^^^^^^^^^| |^^^^^^^^^^| |]]P|
| 12 13 GIUGNO VOTA SI PER DIRE NO||”"”;..\___.
|……_______________| l______________l _||__|…, ]P
“(@)’(@)”""""""*l'(@)l'(@)l """"""""""""""(@)'(@)""""'(@)

giovedì 2 giugno 2011

La verità è come acqua




La verità è come acqua quando è costretta da un contenitore, e il contenitore ha la forma che gli è concessa dai pregiudizi che l'hanno costruito. Quando il contenitore si spezza la verità continua a obbedire alla propria natura liquida, che la porterà in una nuova gabbia pregiudiziale che la costringerà nell'essere sicura di sé, inconsapevole dei limiti che impone alla libertà. È per questo che la liquidità sta a proprio agio solo dove può scorrere, e per lasciarla scorrere è necessario non appropriarsene attraverso il pensiero e le intenzioni. Quando un individuo comunica col Centro di sé, nella conoscenza dei princìpi universali dell'esistenza, quell'individuo non ha più idee proprie, né formula ipotesi. Non può più farlo perché conosce i princìpi dai quali tutto procede. Solo in questo caso la verità resta ciò che è in realtà: uno scorrere sempre diverso della stessa e unica liquidità che obbedisce alle leggi della liquidità. Leggi che quando sono riferite alla realtà si chiamano princìpi universali, e valgono per tutto l'esistente, oltre a valere per Ciò che all'esistente è superiore.

mercoledì 1 giugno 2011

L'Intelligenza universale


Si nasce nella verità dell'essere nati e si vive nella fatica del dover nascondere la verità, disposti a sperare che la memoria si cancelli con la morte, piuttosto del dover guardare, negli occhi, la verità che si è rifiutata. Non c'è, in realtà, una infinita lotta tra il bene e il male, perché se il male sogghigna in ogni imperfezione, il Bene sorride nella Perfezione data dalla somma di tutti i disequilibri. Il male è servo del bene senza saperlo, e questa è la ragione per la quale la prima caratteristica che distingue la malvagità è il bisogno di negare la verità della centralità spirituale.
Lo spirito universale si esprime attraverso l'intelligenza universale, la Quale è disinteressata perché solo il nulla le manca.
Il destino di ogni realtà incompleta sta nella completezza, come il destino di ogni libero arbitrio sta nella possibilità di scegliere il proprio destino da compiere.