Occasionalmente accade che chi scrive, per passione e non per lavoro, si chieda quale sia la ragione essenziale del proprio scrivere.
Non è come il chiedersi per quale motivo si vada al cesso al mattino; in questa ultima eventualità passione e lavoro condividerebbero la stessa valenza.
Tra le innumerevoli ragioni che vogliono soddisfazione dalla scrittura una è la mia preferita, e credo sia quella che le dita stringono quando si sventola il ventaglio costituito da tutti gli altri motivi: io scrivo per me stesso.
— Oh oh...— si dirà
— Che idiozia!
— Che scusa puerile
— Tutti sanno che il pensare esaurisce le funzioni del dialogo con se stessi
— Perché lasciar tracce così sconvenienti di sé?—
— Perché io non scrivo per avere in cambio una convenienza— risponderei... se fosse del tutto vero.
Invece una convenienza c'è ed è data dal fissare, nero su bianco, concezioni migliorabili nel tempo che io trascorro cercando di migliorarmi.
Il pensiero scolpisce se stesso attraverso le emozioni che suscita, ma non è l'emozione il faro che cerco. Troppo mutevole è il sentimento perché possa sperare di rappresentare valori immutabili, e io scrivo per destabilizzare un errore.
L'errore che si commette quando ci si affida soltanto all'emozione, nella speranza di riempire un vuoto di valori.
L'ovvietà criminale che consiglia di andare dove porta il cuore è, dal mio punto di vista, analoga a quella che assicura il lavoro renda liberi.
Il vero cuore è quello che non contraddice la ragione, e la vera ragione è quella che senza il cuore si rifiuta di agire.
Che l'esistenza corrisponda a una donazione solo chi ruba non lo sa, e questo dev'essere sufficiente per associare al sacrificio di sé un valore che il sacrificare gli altri non ha il diritto di rappresentare.
Io scrivo, ogni volta, per ricordarmelo.
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