Nessuno,
tra i ricercatori della base, si era mai chiesto quale fosse il suo nome, e in
fondo a chi sarebbe dovuto importare di quel giovane assistente, il cui compito
era solo quello di coordinare gli aspetti estetici dei diversi rami di una
ricerca che, in centinaia di anni, non aveva partorito neppure un germoglio?
Nessuno sapeva che quel ragazzino di neppure venti anni era finito nel Centro
Ricerche Erzel, il più importante del pianeta, in seguito alla raccomandazione di
un insigne professore di fisica nucleare che aveva riconosciuto in lui
un'intelligenza dalle potenzialità mai incontrate prima, nella sua lunga
carriera d'insegnante. Per tutti quel ragazzo era soltanto uno tra la
moltitudine degli svogliati figli di papà che gironzolavano per il centro
ricerche spostando polvere. Ma la polvere che quello studente stava spostando
non era della stessa natura di quella inseguita dai robot addetti alla
sterilizzazione dei laboratori. Era decisamente più impalpabile e, soprattutto,
non era visibile nemmeno per il più sofisticato microscopio elettronico.
La
scoperta, evento estremamente raro al quale le intelligenze esperte non sono
avvezze, questa volta non era stata accidentale, né era stata conseguita
attraverso strumentazioni da laboratorio perché il "pulviscolo
creativo", come Idney l'aveva chiamato nel buio della propria cantina, si
trovava al di sopra della tabella elementale del cosmo, e costituiva quello che
si potrebbe definire lo "zero affermato" a partire dal quale
l'Essenza fecondava la sostanza. Nel passato la ricerca si era impegnata a
lungo per trovare quella che, molto fantasiosamente, era stata nominata
"la particella di Dio", ma era stato un cercare a casaccio, un
rovistare tra gli infinitesimali elementi sub atomici individuati sparando
protoni, attraverso una cascata di acceleratori proto-sincrotonici che
spingevano quei protoni a energie relativistiche, producendo fasci di
spaventosa energia che venivano, a loro volta, lanciati attraverso delle linee
di transfer che si dispiegavano, cento metri sottoterra, correndo per decine di
chilometri a lingua fuori, se ne avessero avuta una. Quando la circolazione dei
fasci di energia si era stabilizzata e accordata, i fasci erano fatti entrare
in collisione tra loro scomponendo a cascata gli atomi, nella speranza di
ottenere l'ipotizzata particella di Dio, anello di congiunzione tra la realtà
informale e quella formale. Quel procedere scientifico si era trovato davanti
un muro invalicabile, eretto dall'impossibilità a poter proseguire, perché
qualsiasi particella, per infima che fosse, sarebbe comunque rientrata
all'interno del dominio dell'estensione che è indefinitamente divisibile,
ammesso di disporre dei mezzi, anch'essi necessariamente fisici, per scomporla fino
ad arrivare ai suoi primi elementi costitutivi che alla materia non
appartengono. Si era mostrato, in tutta la sua evidenza, l'obbligo che la
fisica ha di arrestarsi un attimo prima di cessare di essere fisica, e ogni
procedimento fondato sulla divisione indefinitamente estensibile, di ciò che è
sottomesso all'estensione, sarebbe stato fallimentare.
Idney
aveva genialmente adottato la via opposta a quella che occupava l'altare più
alto, nella imponente quanto impotente chiesa della scienza, che consisteva nel
procedere dall'infinitamente sottile "non materia", quella che
riveste ogni idea prima che la stessa si corrompa, e che dà poi forma al
pensiero in grado di partorire la materia.
Per
due anni Idney, quando non muoveva dati di laboratorio al Centro Ricerche, si
era precipitato nella sua cantina, arredata con una sola stuoia stesa tra le
muffe del pavimento in pietra, a meditare. La convinzione che si dovessero
percorrere strade extra scientifiche si era impossessata del suo spirito fino a
coinvolgere la mente, che aveva orientato tutte le sue energie
all'individuazione dell'imponderabile, indagato a partire dallo spirito che
centrava il suo essere un uomo, prima che un possibile ma improbabile
scienziato. Era giunto così alla conclusione che il mistero della creazione non
potesse appartenere alla creazione, così come ogni causa non appartiene ai suoi
propri effetti, e se voleva scoprire quale fosse la causa prima della materia
doveva anch'egli restarne al di fuori. Quale modo migliore di farlo poteva
esserci se non percorrere a ritroso l'atto creativo?
La
prima cosa da fare sarebbe stata quella di sovrapporre il proprio essere
cosciente al centro di sé, ma prima ancora doveva capire quale fosse e cosa
fosse questo centro ineffabile. Lesse tutti gli scritti appartenenti alla
Tradizione iniziatica dei diversi popoli, scoprendo che trattavano tutti la
stessa astrusa questione, quella che si riferiva alla centralità comune a tutti
gli esseri, identica per tutti, la quale sfuggiva alle costrizioni imposte
dall'universo delle relazioni. Era questo un Centro che condivideva
l'assolutezza del Mistero senza nome, e il doverlo conoscere pareva essere lo
scopo che ogni iniziato ai misteri si dà.
Iniziò
così a seguire alcune pratiche yoga, che affinano la capacità di concentrazione
della mente, nel tentativo di sfuggire alla propria mente, ma fu come
pretendere che un occhio possa riuscire a guardare se stesso senza usare
strumenti esterni a sé. L'unico effetto ottenuto fu quello di sentirsi
estraniato dal mondo, in una sorta di limbo emotivo, crudele nel suo non essere
ancora un inferno. Il paradiso, semmai, sarebbe arrivato dopo.
La
scienza gli appariva vacua e gli scienziati sembravano essere individui ciechi,
di fronte alla complessità di regole sostenute dalle eccezioni da esse stesse
generate. Provò a digiunare a lungo per rendere il suo pensiero più lucido e
attivo, ma alla fine dovette cedere alla propria natura che, per quanto fosse
stata esile, restava sempre ingombrante, come la materia che lui avrebbe voluto
creare dal nulla.
Fu
uno strano incontro quello che voltò l'ultima pagina della sua affannosa
ricerca di soluzioni possibili: l'incontro con un anziano mendicante, il quale
pronunciò una frase criptica dopo che Idney si era rifiutato di allungargli una
monetina:— È il sacrificio la chiave che scosta il velo, e se vuoi trovare ciò
che cerchi dovrai sacrificare al Mistero tutto quello che sai, bruciandolo in
un sorriso. Il Mistero ti riempirà di nuovo, ma con la Verità, non più con tue
idee— e lo toccò senza muovere l'aria, tracciando dei segni incomprensibili
dietro a uno sguardo che gli si impresse nella memoria, senza che attorno la
cornice di un viso potesse essere limitata da una fisionomia.
I
giorni successivi a quel singolare incontro furono tumultuosi, e le notti
agitate da sogni che parevano dovessero suggerirgli qualcosa di importante. Nella
sua mente si accavallavano questioni irrisolte, che chiedevano di essere
ordinate attraverso dei princìpi condivisi dal suo spirito, il quale si muoveva
col passo incerto di chi si è appena svegliato da un incubo. Avvertiva la
necessità di avere dei riferimenti certi, dai quali procedere nel dare forma
alle intuizioni che lo assillavano. Princìpi superiori alle leggi fisiche gli
si presentavano nella loro ineluttabilità, e mostravano di essere perfettamente
logici nel loro essere la causa delle leggi naturali alle quali la scienza,
insieme alla logica, si affidava.
Un
complesso e arabescato mondo riempiva gli occhi della sua coscienza,
trasformandola in consapevolezza. Stava accadendo qualcosa che eccedeva le
normali esperienze vissute, qualcosa che le trascendeva.
L'universalità
era una necessità che aveva ognuno dei princìpi che l'ispirazione inviava alla
sua visione interiore, e il suo sentire emotivo ne era come sopraffatto. La
realtà intorno fluttuava nella sua inconsistenza, di fronte alle ragioni
d'essere modulate in leggi immutabili che si succedevano, le une alle altre,
fino ad acquistare una forma che il pensiero poteva sì considerare, ma senza la
forza e l'intelligenza per potervisi opporre. Capiva che ora lui aveva due
intelligenze distinte e diverse tra loro, che dovevano accordarsi: la sua individuale,
limitata, e quell'altra universale, illimitata, che conosceva la ragione
d'essere della realtà, e la conosceva al di sopra della durata temporale, nello
stesso eterno istante nel quale lui era in grado, attraverso quella intelligenza,
di vedere la realtà denudata dei suoi orpelli.
Trascorse
i mesi successivi a chiedersi inutilmente chi potesse essere quell'uomo a
partire dal quale, ne era certo, era cominciato il suo nuovo cammino nel mondo,
ma finì col tornare a sedere in cantina, cercando dentro di sé per riuscire ad
affondare le mani nel ricco e sconosciuto Nulla.
Quel
giorno Idney non avrebbe dovuto recarsi al laboratorio, ormai non era più
necessario lavorare per vivere, perché la sua vita ora era immobile di fronte
alla conoscenza perfetta nella quale si era trasformato. Non poteva più avere
idee personali né formulare ipotesi attorno a una realtà vista per ciò che essa
è: un perfetto imbroglio, imposto e ordito dalla Libertà per donare la
possibilità di poter vincere ogni limite.
Idney
stava all'interno della simultaneità senza tempo, anche se il suo essere nel
mondo continuava a camminare nella consequenzialità, ombra tra le ombre. Aveva
accarezzato a lungo la possibilità di creare dal Nulla, e adesso che poteva
farlo non gliene importava più nulla. La Creazione era così perfetta, nel suo
superare la somma delle imperfezioni delle quali è composta, che ogni aggiunta
sarebbe stata superflua, anche se quel superfluo non avrebbe danneggiato
alcunché, finché fosse rimasto la complessa illusione che ogni realtà relativa
è, nel confronto con la sua ragione essenziale d'essere.
Quel
giorno, lo sapeva nella Certezza assoluta, sarebbe stato il suo ultimo giorno
di lavoro al Centro Ricerche.
Seduto
nella sua dimora interiore immaginò di essere al laboratorio, e lì comparve dal
nulla, senza che alcuno potesse scorgerne l'immagine. Si diresse nell'aula
magna dove la Conferenza dei ricercatori era in pieno svolgimento, e si
accomodò su una poltrona dell'ultima fila, calmo allo stesso modo del nulla.
Gli scienziati, intanto, dal palco
illustravano gli ultimi passi fatti, che avevano superato il vaglio delle
ripetute prove di laboratorio, magnificandone le possibili applicazioni.
L'umanità, dicevano, può contare su di noi, ed era come dire che poteva fare
affidamento sull'intelligenza di persone che avevano, come scopo,
l'arricchimento di pochi che promettevano la comodità ai molti, i quali stavano
a guardare, stupefatti dalla profondità di tanto ingegno. Idney vedeva l'interno
di ognuno di loro, le intenzioni celate sotto alla superficie delle menzogne, e
la luce negli occhi generata non dall’Intelligenza universale, ma dal fuoco che
brucia tutto ciò che gli sta attorno, e vedeva quegli esseri nella pace più
totale, priva di emozioni, nel distacco dato dal conoscere la vanità del male.
L'antico Idney si sarebbe alzato da lì e li avrebbe annichiliti, mostrando loro
l'effetto del pulviscolo creativo di cui erano il risultato, ma ora non poteva
più, né era interessato a farlo, perché la Libertà totale che lui era diventato
non poteva contraddirsi, negando la libertà particolare di esseri limitati i
quali avevano, nella piccola libertà che li possedeva, tutti i diritti
dell'universo di cercare da sé la Verità unica, l’unica che sa governare
l'universo attraverso la Libertà.
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