In un suo scritto sulle religioni, lo scrittore Herman Hesse magnificava, entusiasta, la risposta di un monaco buddista che, alla domanda fattagli da Alessandro Magno sul senso della vita, così rispose: “Nulla di sacro, aperta distanza!”.
Quel monaco confondeva l’Infinito con l’indefinito, il Sacro col profano. Alessandro aveva incontrato il monaco sbagliato, e Hermann Hesse non è stato in grado di coglierne la differenza.
La conoscenza, sulla superficie della sfera presa a immagine della realtà incontra, nel suo procedere, l’indefinita aperta distanza e ruota continuamente senza poter approdare alla sintesi della certezza assoluta, poiché l’estensione deve escludere l’essenziale, che non è esteso ed è il Principio che la determina, simboleggiato proprio dal Centro. Per questo l'estensione non può essere infinita. L’Infinito non deve escludere nulla perché, se lo facesse, l’esclusione diverrebbe il suo limite. L’indefinito è invece caratterizzato da un limite il quale, come se l’Infinito che l’ha creato lo chiamasse a sé, mentre sta per essere raggiunto si allontana divenendo un orizzonte irraggiungibile. Il drago che si morde la coda (L'Uroboros o Ouroboros o Oroboros della Tradizione) è il simbolo della razionalità che non riesce a comprendere interamente le ragioni della totalità di cui è parte ed effetto, oltre a essere anche quello, su un altro piano più elevato, della ciclicità di tutti gli eventi e dell'esistenza tutta. L’indefinito limite costituisce il confine della manifestazione che può risolversi solo nell’Infinito, il quale, senza contingenze che lo circoscrivono, crea la realtà relativa senza subirne le limitanti conseguenze, poiché la causa non è modificata dal suo effetto. Il fuoco non brucia il calore che lo determina. Hesse aveva una conoscenza "culturale", e non immediata, della Tradizione Vedica Induista, così come del Taoismo e del Buddismo, ma egli proveniva culturalmente dal modo d'intendere la realtà del Sacro propria al protestantesimo, che affida all'individuale, nel suo aspetto relativo e culturale, la comprensione di Principi universali che sono al più basso grado di relatività e solo nel loro rapporto con l'Assoluto, e che possono essere compresi solo dalla comunicazione consapevole col Centro universale che è Causa prima dell'individualità. Questo significa "al di sopra della mente" e in un modo "immediato” e senza distinzione né divisione, tra colui che conosce e la realtà conosciuta. Mai all’individuo che non risiede stabilmente col proprio conoscere nella sfera dell’universale, quindi nel Centro di tutte le realtà, è concessa la conoscenza dei Principi universali e la conseguente capacità di “ragionare” per Principi, escludendo facilmente, con ciò, ogni contraddizione e paradosso, i quali appartengono solo al regno dell’impossibilità.
Aggiungo questo appunto al giudizio espresso sopra su Hesse, ricordando il suo romanzo dal titolo "Il gioco delle perle di vetro", nel quale l'autore racconta di un ipotetico e speciale gioco che è in grado di tradurre la realtà nei suoi intimi meccanismi di principio, come se la realtà fosse il risultato di un meccanismo. Naturalmente di questo magico pallottoliere non dà mai nemmeno una sommaria descrizione di tipo logico, matematico o geometrico, ma non è questa mancanza che deprime. Il mio sconforto di lettore segue la consapevolezza che la totalità non potrà mai essere racchiusa in un sistema che sia qualcosa più che simbolico, essendo il simbolo il rappresentante muto della realtà, perché ne sintetizza i principi attraverso immagini, non altrimenti comunicabili, che evocano intuizioni interiori. Così è per i Tarocchi, per le Rune celtiche, per lo I Ching cinese e per altri microcosmi che racchiudono il macrocosmo, per la legge della corrispondenza analogica che è assicurata dal fatto che il grande deve obbedire alle leggi che regolano il piccolo poiché il grande è il risultato dell'unione dei piccoli. Dalla conoscenza dei principi universali nascono questi insiemi simbolici che, però, mai costituiscono un sistema di pensiero, e questo per un'impossibilità a esserlo derivata da ragioni precise. La più importante delle quali è che la totalità è indefinita nel suo racchiudere un tutto che per essere tutto ha necessità delle eccezioni, mentre ogni sistema ha il vezzo di costituire una sistematizzazione di pensiero che, per definizione, deve escludere ciò che non rientra nei suoi obiettivi e, di norma, quello che esclude è l'essenziale che non può essere colto dalla consequenzialità del pensiero, e quest'assenza della centralità ineffabile rende la sistemizzazione inapplicabile, illusoria e limitante. Un'altra ragione importante è data dal credere che il tutto possa riempire la logica del pensiero. È questa un'altra impossibilità, perché la logica, quando è rispettosa dei principi dai quali deriva e non un'assurda sequela di proposizioni casuali, è conseguenza ed effetto della verità, e in quanto tale non potrà a propria volta contenere interamente il proprio contenitore e comprendere la verità nella sua totalità. Su questa incomprensione di principio, che costituisce un pregiudizio, Hesse ci ha costruito un romanzo spacciandolo per il frutto di una conoscenza superiore che non è mai stata alla sua portata di comprensione.
Vorrei sottolineare che un simbolo, per essere compreso nella sua interezza, deve essere considerato non soltanto per ciò che contiene, ma anche per quello che esclude, e un simbolo universale non esclude nulla. Il Tao, per esempio, costituisce la rappresentazione piana, bidimensionale quindi, della spirale che è modulo del movimento ciclico universale, la quale ha un centro fisso che è asse, ed è racchiusa da una circonferenza. Il fatto che sia piana non esclude la vista tridimensionale, né la sua rotazione e neppure il fatto che la circonferenza diviene la distanza infinitesimale che misura e differenzia le spire tra loro. Occorre ricordare che in questo simbolo anche il nulla esterno dal quale esso è contenuto ha il suo senso simbolico.
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