mercoledì 30 novembre 2011

La coscienza e la Realtà che le è superiore


Che cosa strana è la coscienza... È ritenuta essere la depositaria della verità interiore, quella che ognuno di noi tiene per sé, gioiello talmente di pregio che raramente è messo in mostra. Si preferisce indossarne una copia, anche se nessuno sarà tentato di rubare l'originale, perché di coscienza se ne può avere una sola, e già basta e avanza.
Ma cos'è, in realtà, la coscienza, se non il sapere di esserci? Fosse qualcosa d'altro, di più stabile e duraturo intendo, diverrebbe una consapevolezza, che non si limita a un conoscere che non necessita di capire le ragioni che si hanno per doverlo fare. Appena nati si è coscienti di esserci, e se non ci si accorge di avere una coscienza la fame e il pianto si preoccupano di farcelo sapere. Com'è calda o gelida la nostra coscienza di bimbi quando si accorge che siamo amati oppure abbandonati, e come ci dispone a reagire approfittando della fame da soddisfare. Si è coscienti prima di sapere, si è coscienti senza dover dipendere dalla qualità di quel sapere. Si è lì, soli dentro, a parlare di noi stessi con noi stessi, avendo l'impressione che la coscienza sia un occhio vigile pronto ad accusarci, minacciando che la nostra debolezza possa rivelare al mondo la fatica di dover nascondere la verità. Eppure della verità la coscienza sa poco. Conosce ciò che preferiamo la verità debba essere per ricordarci che esistiamo insieme al nostro diritto di esserci; perché se esistiamo siamo necessari alla vita e la vita ci deve ringraziare per questo. Così, sempre in debito d'ossigeno, la coscienza si piega, anche se a fatica, alle contingenze contro le quali lottiamo, e impara a giustificare le proprie visuali che determinano scelte meno dolorose per il senso che ha la giustizia che ci siamo costruiti, quella che ci strizza l'unico occhio che ha aperto perché l'altro, quello interno, lo tiene chiuso.
Eppure, nonostante gli sforzi fatti, la coscienza ci condanna alla coscienza di dare ascolto a un occhio solo che vede da un solo lato, quello che conviene guardare.
Un bel giorno la sfocatura causata dalle lacrime silenziose ci ricorda che c'è una realtà diversa che aspetta di essere notata, e non è più quella che vorremmo ci ringraziasse.
È la stessa coscienza che ci dice di essere triste e sola, oppressa dalla lotta che l'ha stretta nell'angolo dell'infelicità, dovuta al non essere certa di conoscere la verità che sta sopra di lei.
Una Verità della quale la coscienza è figlia, non madre.
Ecco qual'è il limite della nostra coscienza: è umana.
Non costituirebbe un limite se l'uomo potesse decidere della propria nascita e di non morire, ma la realtà che sta attorno alla nostra libertà ci dice che la coscienza non basta per conoscere la Verità di ciò che siamo davvero.
Dunque la coscienza deve scoprire la realtà dalla quale è sovrastata e che le ha dato ragione di essere.
È costretta a chiedersi quale sia la profondità del Mistero in cui si trova immersa, per sapere se potrà emergere e contemplare la Verità dei princìpi che ordinano il disordine interiore che la fa soffrire.
La coscienza, come ogni altra cosa, ha bisogno di armonia, e l'armonia la si riconosce perché non ha stonature al suo interno che ne ostacolano il fluire.
Una coscienza che obbedisce a verità di cui non sa abbastanza rinuncia al lato pregiato della propria natura, e la coscienza lo intuisce.
C'è un Centro in ognuno di noi che è anche centrale alla nostra coscienza, la quale non sa della Sua presenza.
È una centralità di pura consapevolezza, che non può rivelare la propria presenza prima che sia giunto il momento del quale solo il Mistero assoluto sa riconoscere l'opportunità, e anche quando quel momento è arrivato deve mostrarsi per gradi, perché la demolizione istantanea dell'illusione ucciderebbe anche l'illuso.
Quando un uomo vede la propria centralità la vede perché è la centralità a mostrarsi, e la coscienza è costretta ad aprire l'occhio che teneva chiuso, quello che si apre alla visione della necessità del sacrificio di ciò che rifiuta la centralità della quale ogni essere è una diversa espressione individualizzata.
La rifiuta perché essa è universale e identica a quella di ogni altra individualità, e perché ogni esteriorità vuole credersi il centro dell'essere.
L'egoismo, fino al momento dell'apertura interiore, necessario alla sopravvivenza, diviene un peso insostenibile quando la coscienza sa che la sopravvivenza non è il fine della propria esistenza.
L'emozione, cacciatrice di soddisfazioni, capisce di non poter nulla per appropriarsi della felicità che ha bisogno di un'intelligenza che sia consapevole.
La coscienza improvvisamente riconosce i propri limiti, e deve piegarsi alla verità che la consapevolezza interiore mostra attraverso la vista dei princìpi dai quali l'esistere è ordinato, nel suo orientarsi verso il Centro che tutto contiene.
La visione del vero non si esaurisce mai, perché il panorama osservato è privo di limiti, come non li ha il Centro universale dal quale si guarda, con occhi diversi, dentro e fuori di sé.
La consapevolezza dei princìpi universali sostituisce la vecchia coscienza che s'inchina al Vero, rinunciando alle proprie illusioni, e la mente, stupefatta dal nuovo modo di chiedersi, deve soltanto tradurre il Vero in pensieri e parole che, unico loro limite, non potranno portare con sé l'Essenza del misterioso Centro che parla tacendo.

mercoledì 23 novembre 2011

L'utopia

Un’Utopia non è un sogno irrealizzabile e neppure un’aspirazione fumosa. È, invece, il modo che ha la perfezione di realizzarsi, superando gli ostacoli imposti dall’imperfezione. L’universo è la rappresentazione di una Perfezione generale sostenuta dalla somma delle imperfezioni particolari dalle quali è composto, e costituirebbe un’utopia se non fosse vero e reale. Certo la sua è una realtà di ordine inferiore a quella dei princìpi universali che ne ordinano la manifestazione e, a loro volta, questi stessi princìpi si trovano a essere a un grado inferiore di realtà rispetto alla Causa che li ha generati. Solo l’Assoluto non ha divisioni né limiti e l’Utopia è, precisamente, il risultato della conoscenza perfetta che l'Assoluto concede, applicata perfettamente alla propria esistenza. Se non ci fosse questa possibilità, superiore a tutte le altre e fine di tutte le altre… ogni atto della nostra esistenza sarebbe una semplice assurdità priva di senso.

lunedì 21 novembre 2011

Il tempo corre immobile, in circolo, modificando la propria qualità

Lo scorrere temporale è misterioso, perché l'istante è sempre uguale a se stesso nella diversità che lo riempie. È come se l'Eternità che sta sopra a tutto ci prenda in giro raccontandoci di Sé, attraverso ciò che Essa non è.
Il tempo è un istante che dura a lungo nell'attimo breve che lo sostiene.

domenica 20 novembre 2011

Sul valore della "cultura"

È opinione comune che la cultura migliori l'uomo e, in questo raffinarne le qualità intellettuali, gli assegni un grado di libertà maggiore. Naturalmente il termine "cultura" racchiude in sé qualsiasi sapere e chiunque si arroghi il potere politico in una nazione o in una collettività, definisce cultura anche quella che alimenta di buone ragioni lo sterminio di culture diverse dalla propria. Indefinite, nella loro molteplicità, sono le culture dei popoli e delle persone, e la gamma che si dispiega include in essa il  laureato come il campagnolo. C'è, infatti, anche la cultura delle campagne, e senza di essa si morirebbe di fame. Poi c'è la cultura di coloro che si compiacciono di conoscere il mondo e le sue ragioni di essere, quella di chi indaga la dimensione della scienza sperimentale, quella di chi studia la sfera psichica ed emotiva, e si chiama cultura quella teologica rivolta al trascendente. In tutti i casi la cultura ha un difetto terribile: dispone l'essere al credere. Chi conosce interpreta e ipotizza, essendo costretto a farlo dalla distanza che separa il conoscente dal conosciuto. 
Distanza che nessuna cultura è in grado di colmare. 
Il vero conoscere, che è l'unico modo della cultura di essere perfetta nei suoi princìpi di base, dai quali tutto il sapere procede per consequenzialità logica, è identificativo e assimilativo nello stesso tempo.
Identificativo dal punto di vista di chi conosce, e assimilativo da quello in cui si trova a essere la realtà conosciuta.
Qui si è nel dominio della consapevolezza metafisica, della dottrina unica e universale, superiore alle limitazioni date dall'ordinarietà umana. La metafisica è, propriamente, il modo di conoscenza che il centro spirituale in tutti noi assume quando le proprie qualificazioni individuali consentono di aprire l'occhio interno che "Vede" i princìpi universali in modo assoluto, e privo dei dubbi che la relatività impone. Nel passato è stato deciso di chiamare la conoscenza, diretta e non mediata dalla mente, metafisica, ma non è il nome a essere importante. La metafisica è certezza assoluta estesa al di là dello spazio e del tempo, la quale ha una natura analoga a quella dell'Assoluto Mistero senza nome, e costituisce la traccia della Causa nei suoi effetti. È il modo nel quale un individuo dispone, senza esserne proprietario, dell'Intelligenza universale, madre di quella individuale. La Certezza è come l'infinità interna del Mistero assoluto, la quale non può esaurirlo... cita un detto Sufi.
È l'Assoluto che dona questa apertura interiore, ma è l'uomo che deve trasformare la vista spirituale in attuazione, sulla propria persona, del sapere universale.

Sul valore della lettura


Il leggere consente di conoscere il pensato di altri che l'hanno scritto, ma conoscere la Verità ben altro impegno richiede. Chiede di esserne degni e, per questo, non bastano tutti i libri del mondo.

venerdì 18 novembre 2011

La Verità e il valore

Per quanti sforzi faccia la menzogna per corrompere la Verità, non potrà mai intaccarne il valore, perché anche la falsità è una "vera" menzogna. 

martedì 15 novembre 2011

Avrebbe potuto

Avrebbe potuto vivere come tutti gli altri, innamorarsi di ciò che gli mancava e stupirsi di tutto quello che sfamava il suo ignorare, ma non sempre si è soli nel dover scegliere il proprio destino. A volte accade di avere una invisibile presenza al fianco, muta come è il pericolo un attimo prima di fare irruzione nel dramma che deve compiersi.
Per lui, come per altri, la vita era un dono ricevuto da uno sconosciuto Mistero che si nasconde in quel dono e negli occhi che la coscienza ha in sé, impietosa nell'attendere che riescano ad aprirsi.
E spalancarsi sul mercato che l'esistere ha imbandito, con la sua esposizione di mercanzie che luccicano.
Attraversare quei banchi senza barattare il suo essere con le sue voglie gli costò la vita; una vita che è stata donata per insegnare che il sapervi rinunciare è l'esoso prezzo da pagare per essere liberi.
Chi rinuncerebbe alla libertà, celata nella leggerezza, per nascondersi dietro al peso che ci trascina in basso?
Avrebbe potuto dar valore al peso come tutti gli altri, e innamorarsi di ciò che lo stava schiacciando, ma la compagnia del Mistero che gli camminava al fianco non gli avrebbe tolto gli occhi di dosso, fino a quando quegli occhi non fossero diventati i suoi.
Ora sono occhi che amano ciò che un tempo hanno temuto, ma amano senza desiderare e non hanno più paura.
Nemmeno della croce che hanno portato.

domenica 13 novembre 2011

C'è un Buio...

C'è un buio che precede la luce, e precedendola la contiene in principio, così da essere disponibile all'ordine totale formato dalla somma dei disordini particolari, i quali tendono alla perfezione che tutto genera, perché la perfezione è potenzialità illimitata. Il Buio, nel precedere la luce, ha la valenza alla quale noi uomini diamo il nome di "Generosità", e non può spaventare un universo che nel buio è immerso come conseguenza della propria natura. Semmai sarebbe più sensato affermare che è il Buio a dover temere, se fosse possibile, le conseguenze di un universo che ha inscritto, nel proprio destino, il dover, un giorno o una notte, morire, o meglio... rientrare nella propria potenzialità di essere un universo nuovo, in un altro giorno o in un'altra notte.

lunedì 7 novembre 2011

La perfezione dell'imperfezione

L'esistenza non funziona attraverso visuali moralistiche, e neppure è ordinata dalla necessità di comminare sanzioni, perché i princìpi che ne ordinano la manifestazione ne regolano anche lo svolgimento attraverso una gerarchia di cause ed effetti, data dalla logica causale e dalla sequenza temporale, negli ambiti in cui la vita è sottomessa allo scorrere del tempo. La perfezione esprime se stessa nell'imperfezione in perenne ricerca, perché ne ha bisogno, di ciò che le manca per essere perfetta. 
Quando un essere vive la propria libertà è costretto dalla libertà a dover scegliere, per sé e per gli altri. 
In dipendenza della scelta fatta ci saranno conseguenze che costringeranno ad altre scelte, che avranno altre conseguenze in un rincorrersi verso la perfezione affamata di sé. In ogni scelta si nasconde la rinuncia di ciò che non è stato scelto in luogo della scelta fatta. Non si tratta di visuale improntata sentimentalmente alle idee individuali di bene e di male, ma di semplice consequenzialità gerarchica. Tutto ciò che a un essere manca per raggiungere la perfezione del proprio stato dovrà essere conquistato attraverso la rinuncia delle condizioni che ostacolano la perfezione di quello stato dell'essere. 
In questo sta la pena o la gioia del vivere. 
In questo le pene e le gioie si scambiano di posto in relazione alla qualità delle assenze che determinano.
Se il scegliere di un uomo sarà disarmonico, e non accordato alla centralità del proprio stato di perfezione potenziale, che deve essere realizzato a immagine della perfezione totale dalla quale l'essere si è allontanato nel proprio manifestarsi, il suo aver sbagliato a scegliere determinerà l'assenza delle note armoniche necessarie alla pacificazione di sé. 
Assenza che dovrà essere riempita e, per esserlo, genererà la sofferenza del vivere che il vivere infligge quando le ragioni perfette che ne motivano il pulsare non sono soddisfatte.
La perfezione è perfetta nella sua totalità proprio perché capace di riempirsi di quello che le manca in ogni particolarità di cui è composta.
Paradiso e inferno sono solo simboli della ripercussione che lega tra loro le cause e gli effetti, e non costituiscono traguardi da raggiungere perché entrambi, dovendosi fronteggiare, sono relativi e imperfetti.